La Jornada – Perfil (supplemento settimanale) – 5 marzo 2003

STATI UNITI:

IL CONTROLLO MILITARE DEL PIANETA

SAMIR AMIN*

1. Dagli anni '80, quando si annunciava il crollo del sistema sovietico, si disegna una scelta egemonica che si guadagna l'insieme della classe dirigente statunitense (con i loro establishment democratico e repubblicano). Grazie al successo della sua potenza armata, che non ha più nessun rivale in grado di moderare i loro fantasmi, gli Stati Uniti decidono di affermare il loro dominio, in primo luogo, per mezzo del dispiegamento di una strategia strettamente militare di "controllo del pianeta". Una prima serie di interventi - Golfo, Yugoslavia, Asia Centrale, Palestina, Iraq - inaugura a partire dagli anni '90 la messa in marcia di questo piano di guerre made in USA: guerre senza fine, pianificate e decise unilateralmente.

La strategia politica che accompagna il progetto prepara i suoi pretesti: terrorismo, lotta contro il narcotraffico o accusa di produzione di armi di distruzione di massa. Pretesti evidenti quando si è a conoscenza delle complicità che hanno permesso alla CIA di fabbricare un avversario "terrorista" su misura (i talebani, Bin Laden, benché i fatti dell'11 settembre non siano mai stati chiarificati) e di sviluppare il Piano Colombia diretto contro il Brasile. Rispetto alle accuse di possibile produzione di armi pericolose - lanciate contro Iraq, Corea del Nord e nel futuro contro qualsiasi paese -, queste accuse non sono niente se comparate con l'uso effettivo di queste armi da parte degli Stati Uniti (le bombe di Hiroshima e Nagasaky, l'impiego di armi chimiche in Vietnam, la minaccia esplicita di utilizzo di armi nucleari nei futuri conflitti). In fondo, si tratta solo di mezzi di propaganda nel senso che Goebbels dava a questo termine, efficaci forse solo per convincere l'ingenua opinione pubblica statunitense, però di volta in volta meno credibili da altre parti.

La guerra preventiva formulata da oggi come un "diritto" che Washington si riserva d'invocare, presuppone fin dall'inizio l'abolizione completa del diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite proibisce il ricorso alla guerra, tranne in caso di legittima difesa, e sottomette un possibile intervento militare a condizioni molto serie, oltre a stabilire che la risposta deve essere misurata e provvisoria. Tutti i giuristi sanno che le guerre intraprese dal 1990 sono assolutamente illegittime e che, pertanto, i loro responsabili sono, per principio, criminali di guerra. Le Nazioni Unite sono state manipolate dagli Stati Uniti, anche con la complicità di terzi, come una volta lo è stata la Società delle Nazioni dagli stati fascisti.

2.L'abolizione del diritto dei popoli, già consumata, sostituisce il principio della uguaglianza con quello della distinzione tra un Herrenvolk (il popolo degli Stati Uniti, insieme a quello di Israele) che ha il diritto di conquistare lo "spazio vitale" che consideri necessario e gli altri, la cui esistenza stessa è tollerabile solo se non costituisce una "minaccia" per il dispiegamento dei progetti di quelli che hanno detto d'essere i "padroni del mondo".

Quali sono, pertanto, questi interessi "nazionali" che la classe dirigente degli Stati Uniti si riserva il diritto di invocare quando le viene voglia?

A dir la verità, questa classe si riconosce solo in un obiettivo - "far denaro" - e lo stato statunitense si è posto apertamente al servizio prioritario della soddisfazione delle esigenze del segmento dominante del capitale costituito dalle multinazionali degli Stati Uniti.

Così, agli occhi dell'establishment di Washington tutti ci siamo trasformati in pellerossa, vale a dire, in popoli che hanno diritto d'esistere solo nella misura in cui non interferiscono con l'espansione del capitale multinazionale degli Stati Uniti. Qualsiasi resistenza sarà ridotta con tutti i mezzi, fino allo sterminio se necessario, come affermano gli Stati Uniti. Quindici milioni di dollari di benefici supplementari per le multinazionali statunitensi e, in contropartita, 300 milioni di vittime, su questo non ci sono dubbi. Gli Stati Uniti sono lo stato canaglia per eccellenza, per riprendere la terminologia dei presidenti Bush padre, Clinton e Bush figlio.

Questo progetto è chiaramente imperialista nel senso più brutale del termine, però non è "imperiale" nel senso che Negri dà a questo termine, perché non si tratta di controllare l'insieme delle società del pianeta per integrarle in un sistema capitalista coerente, ma solo d'impadronirsi delle loro risorse. La riduzione del pensiero sociale agli assiomi di base dell'economia volgare, l'attenzione unilaterale data alla massimizzazione della redditività finanziaria a corto periodo di tempo del capitale dominante, rafforzata dalla messa a disposizione di questo di mezzi militari noti a tutti, sono i responsabili di questa barbara deriva che il capitalismo porta con sé, visto che si è disfatto di qualsiasi sistema di valori umani, sostituiti dalle esigenze esclusive della sottomissione alle presunte leggi del mercato. Per la storia della sua formazione, il capitalismo statunitense si prestava a questa riduzione meglio ancora che il capitalismo delle società europee, perché lo stato statunitense e la sua visione politica si sono formati per servire esclusivamente all'economia, abolendo con ciò la relazione contraddittoria e dialettica economia-politica. Il genocidio degli indios, la schiavitù dei neri, le successive ondate di emigrazioni che sostituivano la maturazione della coscienza di classe con lo scontro fra gruppi che condividevano presunte identità comunitarie (manipolate dalla classe dirigente), hanno prodotto una gestione politica della società da parte di un partito unico del capitale, i cui due segmenti condividono le stesse visioni strategiche globali, dato che si suddividono il compito grazie alle loro retoriche atte a controllare ognuna delle costituencies (circoscrizioni elettorali), della metà scarsa della società che crede ancora abbastanza nel sistema da prendersi il disturbo di andare a votare. Privata della tradizione grazie alla quale i partiti operai socialdemocratici e comunisti impressero il loro segno nella formazione della cultura politica europea moderna, la società statunitense non dispone di strumenti ideologici che le potrebbero permettere di resistere alla dittatura senza contrappesi del capitale. Al contrario, è questo ciò che modella unilateralmente il modo di pensare della società in tutte le sue espressioni e, soprattutto, produce, rafforzandolo, il suo fondamentale razzismo che le permette di vedersi come Herrenfolk. Lo slogan Playboy Clinton, cowboy Bush same policy (playboy Clinton, cowboy Bush: stessa politica), espresso in "linguaggio indio", pone giustamente l'enfasi sulla natura del partito unico che governa la presunta democrazia statunitense.

Per tutto questo il progetto statunitense non è un progetto egemonico banale che condividerebbe, con altri che si sono succeduti lungo la storia moderna e antica, le virtù di una visione d'insieme dei problemi che permetterebbe di dare risposte coerenti e stabilizzatrici, benché siano fondate sullo sfruttamento economico e nella disuguaglianza politica. È infinitamente più brutale per la sua concezione unilaterale, estremamente semplice, e da questo punto di vista si avvicina più al progetto nazi, fondato anche sul principio esclusivo del Herrenfolk. Questo progetto non ha niente a che vedere con ciò che affermano gli universitari liberali statunitensi, che qualificano questa egemonia come "benigna" ("indolore").

Se questo progetto continua a svilupparsi per un certo periodo di tempo, porterà solo un caos sempre maggiore che porterà ad una gestione sempre più brutale per mezzo di azioni precise, senza una visione strategica di lungo periodo. In ultima istanza, Washington non cercherà più di rafforzare autentiche alleanze, il che sempre impone saper fare concessioni. Alcuni governi burattini, come quello di Karzai in Afganistan, sono più utili mentre il delirio del dominio militare permette di credere nella "invincibilità" degli Stati Uniti. Lo stesso lo pensava Hitler.

3. L'esame delle relazioni di questo progetto criminale con le realtà del capitalismo dominante costituito dall'insieme dei paesi della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone) permetterà di misurare/valutare le loro forze e debolezze.

L'opinione generale più estesa, diretta da quei media che non invitano alla riflessione, è che il dominio militare statunitense non costituisce altro che la punta dell'iceberg, che prolunga la superiorità di questo paese su tutti i domini, specialmente economici, però anche politici e culturali. Tutto ciò dovuto alla sottomissione all'egemonia che pretende di essere inevitabile.

L'esame delle realtà economiche invalida questa opinione. Il sistema produttivo degli Stati Uniti è lontano dall'essere il "più efficace del mondo". Al contrario, quasi nessuno dei suoi segmenti potrebbe essere sicuro di superare i suoi competitori in un mercato davvero aperto come immaginano gli economisti liberali. Prova di ciò è il suo deficit commerciale che si aggrava di anno in anno: da 100 mila milioni di dollari nel 1989 è passato a 450 mila milioni nel 2000. Inoltre, questo deficit riguarda praticamente tutti i segmenti del sistema produttivo. Addirittura l'eccedente di cui si beneficiava sul terreno dei beni dell'alta tecnologia, che era di 35 mila milioni di dollari nel 1990, si è convertito attualmente in deficit. La competenza tra Ariane ed i razzi della NASA, tra Airbus e Boeing, sono la testimonianza della vulnerabilità del vantaggio statunitense. Di fronte ad Europa e Giappone per i prodotti d'alta tecnologia a Cina, Corea e altri paesi industrializzati dell'Asia e dell'America del Sud per i prodotti manifatturieri correnti, all'Europa e al Cono Sud per l'agricoltura, gli Stati Uniti probabilmente non li supererebbero senza ricorrere ai mezzi "extra economici" che violano i principi del liberalismo imposti ai loro competitori.

Di fatto gli Stati Uniti beneficiano solo dei vantaggi comparativi stabiliti nel settore dell'armamento, proprio perché questo settore sfugge ampiamente alle regole del mercato e beneficia dell'appoggio dello stato. Senza dubbio questo vantaggio implica alcune conseguenze per la vita civile (l'esempio più noto è Internet), però è anche all'origine delle importanti distorsioni che costituiscono svantaggi per molti dei settori produttivi.

L'economia statunitense è parassita a detrimento dei suoi soci nel sistema mondiale. "Gli Stati Uniti dipendono per il 10 per cento del loro consumo industriale da beni, la cui importazione non è coperta dalle esportazioni dei prodotti nazionali" (E. Todd, Après l'empire, p. 80).

La crescita negli anni di Clinton, lodata per essere un prodotto del "liberalismo" a cui l'Europa, però aveva resistito troppo, è di fatto molto fittizio e, in ogni caso, non generalizzabile, perché riposa su trasferimenti di capitale che implicano il prosciugamento dei soci. Per tutti i segmenti del sistema produttivo reale, la crescita degli Stati Uniti non è stata migliore di quella dell'Europa. Il "miracolo statunitense" si è alimentato esclusivamente con la crescita delle spese prodotte dall'aggravamento delle disuguaglianze sociali (servizi finanziari e personali, legioni di avvocati e di polizie private, eccetera). In questo senso, il liberalismo di Clinton preparò chiaramente le condizioni che permisero lo sviluppo reazionario e l'ulteriore vittoria di Bush figlio. Inoltre, come scrive Todd (p. 84), "gonfiato dalla frode elettorale, il PIL statunitense inizia ad assomigliare, per la affidabilità statistica, a quello dell'Unione Sovietica".

Il mondo produce, gli Stati Uniti (il cui risparmio nazionale è praticamente nullo) consumano. Il loro "vantaggio" è quello di un predatore il cui deficit è coperto grazie all'apporto, consentito o forzato, di terzi. I mezzi messi in moto da Washington per compensare le sue deficienze sono di diverso tipo: ripetute violazioni unilaterali dei principi del liberalismo, esportazioni di armi (60 per cento del mercato mondiale) ampiamente imposte ad alleati subalterni (che, inoltre, come succede nei paesi del Golfo, non utilizzeranno mai questi armamenti!), ricerca di rendite petrolifere (che vuole porre i produttori sotto la sua autorità in modo regolare, motivo reale delle guerre in Asia Centrale ed in Iraq). In ogni caso, il grosso del deficit statunitense viene coperto grazie agli apporti di capitale provenienti dall'Europa e dal Giappone, dal sud (paesi petroliferi ricchi e classi compradoras (1) di tutti i paesi del terzo mondo, inclusi i più poveri), al che si aggiungerà il salasso dovuto al debito imposto alla quasi totalità dei paesi della periferia del sistema mondiale.

Le ragioni che danno conto della persistenza dei flussi di capitale che alimenta il parassitismo dell'economia e della società statunitense, e permettono a questa superpotenza di sopravvivere, sono indubbiamente complesse. Però in assoluto sono il risultato delle presunte "leggi del mercato", che sono a volte razionali e ineludibili.

La solidarietà dei segmenti dominanti del capitale multinazionalizzato di tutti i soci della triade è reale e si afferma mediante la sua adesione al neoliberismo globalizzato. In questa prospettiva gli Stati Uniti sono visti come il difensore (militare, se è necessario) di questi "interessi comuni". In ogni caso, Washington non pretende di "distribuire equamente" i benefici della sua egemonia. Al contrario, si sforza per dominare i suoi alleati e con questo spirito è solo disposto a fare delle concessioni minori ai suoi alleati subalterni della triade. Forse questo conflitto d'interessi del capitale dominante è destinato ad accentuarsi fino al punto di portare ad una rottura nella Alleanza Atlantica? Non è impossibile, anche se è poco probabile.

Il conflitto pieno di promesse si situa su un altro terreno: le culture politiche. In Europa continua ed essere possibile un'alternativa di sinistra che imporrebbe simultaneamente una rottura tanto con il neoliberismo (e l'abbandono della vana speranza di  sottomettere gli  Stati Uniti alle proprie  esigenze, permettendo così al capitale europeo di sviluppare una battaglia sul terreno non minato della competizione economica), quanto con l'allineamento alle strategie politiche statunitensi. L'eccedenza di capitali, che per il momento l'Europa si contenta di "situare" negli Stati Uniti, potrebbe allora destinarsi ad un recupero economico e sociale, senza questa eccedenza un recupero continuerebbe ad essere impossibile. Però quando l'Europa scegliesse di dare priorità al suo sviluppo economico e sociale, l'artificiale salute dell'economia statunitense si smonterebbe e la sua classe dirigente si dovrebbe confrontare con i propri problemi economici e sociali. Questo è il senso che do alla mia conclusione: "L'Europa sarà di sinistra o non sarà".

Per raggiungere questo c'è da liberarsi dell'illusione che la lettera del neoliberismo dovrebbe - e potrebbe - giocarsi "onestamente" da parte di tutti e che, in questo caso, tutto andrebbe per il meglio. Gli Stati Uniti non possono rinunciare alla loro scelta a favore di una pratica asimmetrica del liberalismo, perché è l'unico mezzo che hanno per compensare alle proprie deficienze. Il prezzo della "prosperità" statunitense è il prosciugamento degli altri. Perché, allora, nonostante queste evidenze, continua il flusso di capitali a suo beneficio? Senza dubbio per molti il motivo radica nel fatto che gli Stati Uniti sono "uno Stato per i ricchi", il rifugio più sicuro. Questo è il caso degli investimenti delle borghesie compradoras del terzo mondo. Però, per gli europei? Il virus liberale - e la credenza ingenua che gli Stati Uniti finiranno con l'accettare il "gioco dei mercati" - opera qui con una forza evidente tra le grandi opinioni pubbliche. In questo spirito il FMI ha consacrato il principio della "libera circolazione dei capitali", di fatto semplicemente per permettere loro di coprire il loro deficit con l'assorbimento delle eccedenze finanziarie generate in altri luoghi con le politiche neoliberali, quelle a cui gli Stati Uniti si sottomettono solo selettivamente. Senza dubbio, per il gran capitale dominante il vantaggio del sistema prevale sugli inconvenienti: il tributo che c'è da pagare a Washington per assicurare la sua permanenza.

Esistono paesi chiamati "paesi poveri indebitati" che sono costretti a pagare. Però esiste pure un "paese potente indebitato", di cui si dovrebbe sapere che non restituirà mai i suoi debiti. Per questo fatto, l'autentico tributo imposto dal ricatto politico degli Stati Uniti continua ed essere fragile.

4. La scelta militarista dell'establishment degli Stati Uniti si situa in questa prospettiva. Non è altra cosa che il riconoscimento che non dispone di altri mezzi per imporre la sua egemonia economica.

Le cause che sono all'origine dell'indebolimento del suo sistema produttivo sono complesse. Non sono, quindi, congiunturali, e che perciò si potrebbero correggere, per esempio, per mezzo della adozione di un tasso di cambio corretto, o mediante la costruzione di relazioni più favorevoli salario-produttività. Sono strutturali. La mediocrità dei sistemi di insegnamento generale e di formazione, prodotto di un pregiudizio tenace che favorisce sistematicamente il "privato" a detrimento del servizio pubblico, è una delle principali ragioni della profonda crisi che attraversa la società degli Stati Uniti.

Così, dovremmo sorprenderci che gli europei, lontano dal cogliere le conclusioni che impone la constatazione delle insufficienze dell'economia statunitense, si affrettino, al contrario, a imitarle. A questo rispetto neanche il virus neoliberale spiega tutto, benché soddisfi alcune funzioni utili per il sistema, paralizzando la sinistra. La privatizzazione ad oltranza, lo smantellamento dei servizi pubblici potranno solo ridurre i vantaggi comparativi di cui ancora beneficia la "vecchia Europa" (come la chiama Bush). Però siano quelli che siano i danni che provocano a lungo periodo, queste misure offrono al capitale dominante, che vive sul corto periodo di tempo, l'occasione di benefici supplementari.

La scelta militarista degli Stati Uniti minaccia tutti i popoli. Procede dalla stessa logica che un tempo fu quella di Adolfo Hitler: modificare per mezzo della violenza militare le relazioni economiche e sociali a favore del Herrenfolk del momento. Se questa scelta si imporrà sullo scenario mondiale, determinerà tutte le congiunture politiche, perché la prosecuzione del dispiegamento di questo progetto indebolirebbe estremamente tutti i progressi ottenuti o ottenibili dai popoli per mezzo delle loro lotte sociali e democratiche. Conseguentemente, far fallire il progetto militarista statunitense si trasforma allora per tutti nel compito primordiale, nella nostra principale responsabilità.

La lotta per far fallire il progetto degli Stati Uniti è certamente multiforme. Comporta aspetti diplomatici (difesa del diritto internazionale), militari (si impone il riarmo di tutti i paesi del mondo per far fronte alle aggressioni progettate da Washington - non bisogna dimenticare mai che gli Stati Uniti hanno utilizzato armi nucleari quando ne avevano il monopolio e che hanno rinunciato a utilizzarle quando non lo avevano più) e politiche (specialmente per ciò che concerne la costruzione europea e la ricostruzione del blocco dei paesi non allineati).

Il successo di questa lotta dipenderà dalla capacità degli spiriti di liberarsi delle illusioni liberali. Perché non esisterà mai un'economia globalizzata "autenticamente liberale". E, senza dubbio, si tenta e si continuerà a tentare con tutti i mezzi di farlo credere. I discorsi della Banca Mondiale, che opera come una specie di ministero di propaganda di Washington, riguardo alla "democrazia" e al "buon governo" o alla "riduzione della povertà", hanno questa unica funzione, come il rumore mediatico organizzato intorno a Joseph Stiglitz, allo scoprire alcune verità elementari, affermate con autorità arrogante, senza far emergere mai una minima conclusione che metta in discussione i tenaci pregiudizi dell'economia volgare.

La ricostruzione di un fronte del sud, capace di dare alla solidarietà dei popoli di Asia e Africa, e alla tricontinentale, una capacità di agire sul piano mondiale passa anche attraverso la liberazione delle illusioni di un sistema liberal globalizzato "non asimmetrico" che permetterebbe alle nazioni del terzo mondo di superare i loro "ritardi". Non è forse ridicolo vedere i paesi del terzo mondo reclamare la "messa in moto dei principi del neoliberismo, senza nessuna discriminazione", e beneficiare così dei nutriti applausi della Banca Mondiale? Da quando la Banca Mondiale ha difeso il terzo mondo di fronte agli Stati Uniti?

La lotta contro l'imperialismo statunitense e la sua scelta militarista è la lotta di tutti i popoli, delle loro vittime principali in Asia, Africa e America del Sud, dei popoli europei e giapponesi condannati alla subordinazione, però anche del popolo statunitense. Applaudiamo il coraggio di tutti quelli che nel "cuore della bestia" si rifiutano di sottomettersi così come i loro predecessori si rifiutarono di cedere al maccartismo negli anni '50. Così come quelli che osarono resistere a Hitler hanno conquistato un nome nella storia. Sarà capace la classe dominante degli Stati Uniti di tornare indietro sul progetto criminale che ha dispiegato? Questa è una domanda difficile. Poco, se non niente, nella formazione storica della società statunitense va prevedere questo. Il partito unico del capitale, il cui potere non si discute negli Stati Uniti, non ha rinunciato fino ad oggi all'avventura militare. In questo senso non si può attenuare la responsabilità che questa classe ha preso nel suo insieme. Il potere di Bush figlio non è quello di una "camarilla" - i petrolieri e le industrie dell'armamento. Come in tutta la storia moderna degli Stati Uniti, il potere dominante non è mai stato altro che quello di una coalizione di interessi segmentati del capitale (mal indicati come lobbies). Però questa coalizione può solo governare se lo accettano gli altri segmenti del capitale. In mancanza di ciò, tutto succede in questo paese così poco rispettoso di fatto del diritto rispetto a quello che sembrerebbe esserlo nei principi. Da qui, alcuni fallimenti politici, diplomatici e magari perfino militari potrebbero animare le minoranze nel seno dell'establishment che accetterebbero di rinunciare alle avventure militari nelle quali il loro paese si sta imbarcando. Aspettare di più mi pare tanto ingenuo come poteva esserlo la speranza che Adolfo Hitler ritornasse alla ragione!

Se gli europei avessero reagito nel 1935 o nel 1937, sarebbero riusciti a fermare il delirio hitleriano. Reagendo soltanto nel 1939, ci sono state decine di milioni di vittime. Attuiamo perché ci sia una risposta sia più pronta (di allora) alla sfida dei neonazisti di Washington.

[Traduzione in spagnolo: Beatriz Morali, CSCAweb per il Comitato di Solidarietà con la Causa Araba]

Nota (1): Classi d'élite non produttive che hanno legami d'interesse con il capitalismo estero

*ECONOMISTA EGIZIANO, DIRETTORE DEL FORUM DEL TERZO MONDO IN DAKAR, SENEGAL


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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