LA JORNADA - MASIOSARE - DOMENICA 26 MAGGIO 2002

Montes Azules: la battaglia della fine del mondo

E LA SELVA HA SANGUINATO

Oltre all'antagonismo tra indios e multinazionali che si sta acutizzando, un processo di lunga durata ha provocato la crisi degli ultimi decenni: la lenta ma inesorabile distruzione della selva. La crisi dei Montes Azules non si esaurisce nella cospirazione per sgomberare gli indigeni e far entrare le imprese. È l'esempio paradigmatico della crisi finale di un sistema escludente e predatore che porta alle estreme conseguenze la contraddizione natura-società. Non si tratta di un conflitto circostanziale, ma di un incrocio di civilizzazioni. La riserva della biosfera è minacciata dalla prospezione industriale, soffre la contaminazione degli accampamenti militari ed è anche minacciata dalla colonizzazione disordinata delle comunità indigene. Insomma, il promettente Deserto della Solitudine è diventato il cuore delle tenebre.

ARMANDO BARTRA

Se la sollevazione dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha mostrato agli indigeni le caratteristiche del sistema quale emblema di una emarginazione che minaccia tutti, la battaglia per i Montes Azules chiarisce il modo in cui il capitale si appropria della selva tropicale, come allegoria della generale logica predatoria del denaro.

Se la ribellione indigena prefigura la sovversione necessaria di alcune relazioni sociali che sono brutte quando sfruttano e peggiori quando escludono, la crisi lacandona anticipa l'indispensabile rivoluzione di una tecnologia uniforme ed un modo di produrre che saccheggia e propizia catastrofi ecologiche.

È quindi urgente difendere lo sgombero violento delle comunità che si trovano all'interno o vicine al cuore della riserva della biosfera, ma è anche indispensabile spiegare il motivo della battaglia storica che si sta svolgendo.

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Visto da una prospettiva limitata, il conflitto dei Montes Azules è la tensione tra i piani di sgombero promossi dalle autorità federali e la resistenza delle comunità ad accettarli.

In effetti, nel cosiddetto Tavolo Ambientale installato nel settembre del 2001, i rappresentanti del governo di Fox promuovono lo sgombero adducendo per questo tanto il danno ecologico quanto le rivendicazione della Comunità Lacandona sui cui terreni si trovano gli insediamenti "irregolari". Nel frattempo, il governatore Salazar Mendiguchía ha manifestato più volte la sua opposizione allo sgombero violento ed accusa il titolare della Procura Federale dell'Ambiente di essere un "funzionario inefficiente e turpe che ha spinto il governo dello stato a realizzare atti di forza".

Alcuni sospettano che dietro ai "falchi" federali, più che un'onesta preoccupazione per l'ambiente, ci siano gli interessi delle industrie biopirate che sarebbero meglio favorite in presenza di una riserva ambientale di proprietà della infima e malleabile Comunità Lacandona e sotto il controllo burocratico-militare piuttosto che aprire un confronto con comunità indigene autonome e politicizzate. In concreto, nella zona opera la ONG Conservation International, le cui operazioni sono patrocinate dal Gruppo Pulsar, di Alfonso Romo, proprietario della società Savia, principale promotrice messicana dell'affare biotecnologico. Questo per non parlare delle risorse tradizionali come il petrolio ed il legname.

Non si possono non citare due fattori molto distruttivi: la forza pubblica (esercito, polizia) ed i programmi sociali e di sussidio. Funzioni statali certamente irrinunciabili ma che agendo all'interno di una guerra congelata attraversata da contingenze politiche, diventano armi di controinsurrezione, perversi strumenti di persecuzione e divisione. Fino a che non siano soddisfatte le richieste minime zapatiste, si ristabilisca il dialogo e si negozi la pace, la pubblica sicurezza ed i programmi di sviluppo s'inseriscono inevitabilmente in una guerra sommersa che si sta conducendo da quasi nove anni. Non è un problema di volontà politica, né dipende da chi governa lo stato, ma la condizione di eccezionalità non può persistere indefinitamente senza che il tessuto sociale si decomponga ogni giorno di più.

Dietro a questi protagonisti visibili e interessi particolari, si trova "l'ecosistema internazionale Selva Maya", presidio del concetto di Corridoio Biologico Mesoamericano che, con nel corretto principio che la riproduzione sostenibile della biodiversità presuppone interscambi estesi che oltrepassano le riserve particolari, di fatto trasferisce a organismi finanziari multilaterali, come la Banca Mondiale, la sovranità sui processi biotici. Ed ancora, ci sarebbero programmi come il Piano Puebla Panama e progetti di accordi commerciale come l'ALCA, che annunciano una integrazione continentale al nord come parte di una globalizzazione selvaggia.

Il paradigma su cui poggiano queste posizioni ed interessi, è un conservatorismo asettico secondo il quale quando si tratta di proteggere l'ambiente e le comunità sono di troppo. E pure l'idea peregrina che la biodiversità si preserva con azioni di prospezione biologica, perché non esiste specie più sicura di quella brevettata.

Sull'altro versante si trovano tra 30 e 40 comunità, alcune delle quali sono arrivate recentemente mentre altre vi risiedono da oltre tre decadi. Alcuni sono insediamenti legalizzati durante il governo di Carlos Salinas, quando nel 1988 la Unione degli Ejidos Quiptic Ta Lecubtesel ottenne il riconoscimento di 26 proprietà ejidali. Da lì nacque anche l'Associazione Regionale di Interesse Collettivo, nota come ARIC Unione delle Unioni, alla cui fazione "democratica e indipendente" continuano ad appartenere la maggior parte dei villaggi minacciati di sgombero. Altre sono comunità zapatiste, stabilitesi più recentemente e formate da popolazioni sfollate de Los Altos e da altre località de Las Cañadas, insediamenti come El Suspiro e 6 de Octubre, che oggi si raggruppano nei municipi di Ricardo Flores Magón, Emiliano Zapata e Libertad de los Pueblos Mayas. Ci sono anche villaggi identificati con il PRI, come Palestina, Chamizal, Coatzacoalcos, Plan de Ayutla e San Antonio Escobar. Alcuni sono disposti a negoziare con il governo anche il ricollocamento ed altri non ne vogliono neppure parlare. Alcuni tagliano gli alberi, spianano la montagna per creare grandi pascoli e quando è il momento di preparare la milpa, bruciano disordinatamente, mentre gli zapatisti hanno deciso di "essere i primi che dobbiamo cambiare per evitare la distruzione" e cercano di controllare il disboscamento e gli incendi. Ma di fronte alla minaccia di uno sgombero violento, tutti sono in resistenza.

Secondo questa analisi, saremmo di fronte ad una grande cospirazione dell'impero e dei suoi agenti per espellere dai Montes Azules le comunità indigene che difendono l'ambiente per poi poter privatizzare liberamente la biodiversità ed appropriarsi delle risorse naturali. È vero. C'è una cospirazione. Quindi, di fronte alla minaccia di espulsione e al saccheggio dobbiamo prendere posizione a favore degli indios e contro le multinazionali. Ma dietro a questo antagonismo, che in questa congiuntura si acutizza, c'è un processo di lunga durata che ha provocato le crisi degli ultimi decenni: la lenta ma inesorabile distruzione della selva. Una catastrofe che non nasce da confabulazioni dell'impero - sebbene esistano - né si rimedia con il solo prendere partito per gli indios.

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Qui risiedevano i maya ai tempi del loro splendore, ma all'arrivo degli spagnoli solo qualche comunità lacandona, pochutlas, topiltequenses e acalaes risiedeva in quello che sicuramente si chiamava il "deserto della solitudine".

E continuò ad essere deserto. Fino al principio del XIX° secolo, quando la civilizzazione mercantile arrivò nella selva con il terribile volto delle compagnie del legname. Allora cominciò il saccheggio. Per prima furono la caoba ed il cedro, i cui fusti strappati con la trazione animale venivano poi trasportati dalle impetuose acque dei fiumi, tecnica che ha ridotto il danno perché i tagli non potevano allontanarsi molto dalle riserve. Poi arrivarono gli accampamenti chicleros (per la raccolta della gomma), di penetrazione più profonda ma interessati solo al chicozapote (nespolo delle Antille). Così, durante il XIX° secolo l'estrazione di legno pregiato e di lattice, consumò tre specie arboree senza danneggiare troppo l'ecosistema.

Ma nel XX° secolo, le incursioni tecnicizzate si sono intensificate e nella seconda metà del secolo il governo ha promosso il saccheggio attraverso la Compagnia Forestale della Lacandona, S.A. e la Triplay Palenque S.A., imprese a partecipazione statale dipendenti della Nacional Financiera. Per coprire l'operazione, nel 1972 il presidente Luis Echeverría ha assegnato ben 614.321 ettari alla Comunità Lacandona, formata da sole 80 famiglie, gettando nell'illegalità i vari insediamenti degli immigrati che volenti o a forza si sono canalizzati verso due Nuovi Centri Abitativi: Velasco Suárez, noto come Palestina, e Frontera Echeverría, detta Corozal.

Anche nella metà del secolo scorso il governo ha promosso l'allevamento del bestiame nel sudest attraverso sussidi e libero accesso alla terra. L'introduzione di un modello estensivo e di pascolo libero, ha dato origine ad un allevamento intensivo e bassissimi livelli di pascoli estivi ma, soprattutto, ha provocato la distruzione di grandi estensioni di selva tropicale, in particolare in Campeche, Quintana Roo, Tabasco e Chiapas. In quest'ultimo stato, allevatori potenti, come quelli di Ocosingo, hanno monopolizzato i pascoli e l'affare redditizio del foraggio del bestiame, mentre i campesinos erano incaricati del faticoso lavoro dell'allevamento.

Lo sfruttamento forestale puramente estrattivo e l'allevamento estensivo, sono due affari a bassissimo investimento ed essenzialmente a rendita, i cui abbondanti utili provengono dall'appropriazione e saccheggio delle risorse naturali. Sono anche pratiche predatorie che si estendono a costo della distruzione degli ecosistemi. Infine, sono attività economiche non sostenibili.

Eppure, non si tratta di modalità perverse della produzione industriale, al contrario la loro logica è strettamente capitalista. E lo è in due sensi: la massimizzazione dei profitti e l'appropriazione economica della natura. Quest'ultima, attraverso processi di privatizzazione che sono talvolta campagne di equiparazione, di distruzione della diversità. Perché, per il denaro, l'eterogeneità della biosfera è un ostacolo da superare, una sfida che si vince solo quando la selva è stata disboscata, spianati i terreni, imprigionate le acque, uniformate le piante e gli animali, equiparate le tecnologie, trasformata la fertilità in beni di sintesi chimica. E alla fine, decifrata, manipolata e privatizzata la chiave genetica della vita, non per il bene dell'umanità ma a vantaggio degli affari.

E la selva ha sanguinato.

Se ha potuto sopravvivere senza grosse perdite ai fiumi di legname prezioso e di bianco lattice fluiti alle metropoli durante il XIX° secolo, la silvicultura tecnicizzata e l'allevamento estensivo della seconda metà del secolo scorso, l'hanno fatta retrocedere, perdere terreno, rimpicciolirsi. Però, mancava ancora un'altra piaga: la colonizzazione disordinata delle comunità campesinas provenienti soprattutto dalla Zona Nord, Los Altos e dall'est dello stato. Dire che gli indios emigrati nella selva sono stati una disgrazia può essere politicamente scorretto, ma è la verità.

Il popolamento moderno della Selva Lacandona è iniziato mezzo secolo fa con molti influssi: campesinos meticci di nove stati della repubblica a cui il governo aveva assegnato nella zona Nuovi Centri di Popolamento Ejidali, rifugiati guatemaltechi che fuggivano dalla guerra e soprattutto indigeni chiapanechi: antichi peones nelle proprietà degli allevatori, dei coltivatori di mais o di caffè, che cercavano una vita migliore, e giovani espulsi dalle proprie comunità per mancanza di terra. Per primi furono i tzeltales e choles ma, a partire dagli anni settanta, hanno cominciato ad arrivare anche tzotziles ed alcuni tojolabales.

Non erano pochi: mentre nel 1960 nella Selva Lacandona vivevano circa 12.000 persone, oggi è occupata da 215.000 abitanti. Il popolamento è stato inversamente proporzionale all'estensione dei boschi poiché se 40 anni fa c'erano più di un milione e mezzo di ettari boschivi praticamente vergini, oggi ne restano solo mezzo milione con vegetazione intatta. Senza dubbio la perdita è stata opera delle compagnie del legname e dei grandi allevatori, ma i campesinos hanno fatto la loro parte.

Nell'ultimo quarto di secolo abbiamo vissuto un tumultuoso esodo verso il nord: dalla campagna alla città, dall'agricoltura all'industria, dal Messico agli Stati Uniti. E in tempi di incontrollabile flusso settentrionale come i nostri, la colonizzazione indigena del Deserto della Solitudine ci si presenta come l'ultima grande marcia verso il Sud. E qui Sud non è tanto una direzione quanto un'allegoria.

Coloro che sono emigrati verso Las Cañadas, addentrandosi nella selva con il miraggio di libertà ed abbondanza, pensavano che ancora esistessero spazi liberi in cui stabilirsi, credevano che la frontiera agricola potesse ancora ampliarsi senza limiti. Questo è stato l'ultimo spostamento di massa di una popolazione verso l'orizzonte, verso una periferia promettente in cui edificare rustiche utopie libertarie. Oggi, quando gli ultimi pellegrini stanno entrando nella zona centrale, nei reconditi Montes Azules dove termina il mondo e dicono cominci una nuova vita, risulta evidente quanto le promesse del Sud fossero già un miraggio tre o quattro decenni fa.

Perché la selva non può sostenere così tanta gente.

Ma anche perché i coloni sono arrivati qui senza un bagaglio tecnologico adeguato. Le loro conoscenze agricole ancestrali provenivano dal altri ecosistemi e nella selva risultavano inadatte, ma fatto più grave è che la maggioranza ha adottato i metodi predatori dei signori e allevatori che li avevano preceduti. Il fatto è che quando si emigra per uscire dalla povertà, si pensa di seguire l'esempio di quelli che sono diventati ricchi. Un modello che ha poco a che fare con l'accorta gestione campesina delle risorse e molto con il disboscamento indiscriminato per ricavare legname e per realizzare pascoli.

Si sono presto resi conto che si trattava di un miraggio.

In alcuni casi, il campesino era solo la punta avanzata degli allevamenti privati del bestiame, perché disboscava, seminava i campi per un paio di anni e lasciava il pascolo così realizzato affinché lo occupasse l'allevatore. E quando estraeva legname, lo faceva per conto delle segherie e delle grandi compagnie. Perfino la "milpa che cammina", l'ancestrale sistema maya di sarchiatura-taglio e incendio per far riposare la terra richiede estesi disboscamenti che, a volte, provocano incendi incontrollabili, ha finito per essere un pericolo per la selva. Delle quattro linee produttive sviluppate ne Las Cañadas: milpa, legname, bestiame e caffè, solo quest'ultima è risultata essere sostenibile e perfino con virtù ecologiche, perché nelle piantagioni non si è seguito il modello delle fincas, spesso specializzato e in pieno sole, ma si è seguito il sistema rustico, su terreni tradizionali ombreggiati che riproducono ragionevolmente la biodiversità, trattengono il terreno, facilitano l'infiltrazione dell'acqua e catturano carbonio.

D'altro canto, il Deserto della Solitudine è risultato essere uno straordinario laboratorio sociale.

Giovani creativi ed animati da un attivismo ecclesiale ispirato dalla Teologia della Liberazione, gli immigrati rifiutavano il sistema dei caciques dei loro luoghi di origine e nella selva trovavano una pagina bianca su cui ridisegnare la comunità.

Crogiolo di etnie e lingue, Las Cañadas hanno visto nascere nuove identità politiche e inediti attori sociali: dalle Unioni degli ejidos degli anni settanta fino all'EZLN degli anni ottanta e novanta.

La storia l'ha raccontata ottimamente Neil Harvey in La rebelión de Chiapas. Ma un altro libro e autore, Víctor Toledo in La paz en Chiapas ci mostrano una faccia diversa della moneta: se dal punto di vista sociale la selva è stato un fruttuoso campo di sperimentazione, in ambito economico e produttivo si è rivelata un vicolo cieco. L'allevamento estensivo e la silvicultura estrattiva potrebbero essere redditizie ma sono insostenibili; la milpa itinerante richiedere un equilibrio territorio-popolazione che si è rotto; e la coltivazione del caffè, essendo ambientalmente virtuosa, soffre di problemi cronici di mercato e si trascina una crisi dei prezzi da tre lustri. Coloro che si erano sottratti al vuoto della selva si sono presto incontrati con quello che non si poteva fare: divieto forestale generalizzato, disincentivi al pascolo libero, critiche al sistema di sarchiatura, taglio e incendio, crollo del prezzo del caffè. E la seduzione dei Montes Azules - l'ultima frontiera - non è che il miraggio di un miraggio, perché quando non si può fare altro, non si può fare altro e se non ha dove vivere, dove vivi...

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Così, il promettente Deserto della Solitudine è diventato il cuore delle tenebre; allegoria del bivio di civiltà nel quale ci troviamo. Un sistema che toglie ed esclude, che ha espulso gli indios dalla selva, precedentemente scremata, con la sindrome del signore e dell'allevatore di successo che ha lasciato loro in eredità modelli tecnico-economici insostenibili e inciampa nell'impronta delle sue scarpe. Allevamento estensivo, estrazione di legname, allargamento della frontiera agricola a spese del bosco, sono l'emblema dell'ecocidio e le comunità che non sanno dove andare, drammatizzano la contraddizione ambiente-società propria del sistema predatorio del grande capitale. Ne Las Cañadas e nei Montes Azules non sono fallite le pratiche agricole degli indios, ma la logica espansiva del capitale si è scontrata contro un muro.

Perché nella riserva della biosfera sì si è disboscato per realizzare pascoli, sì si tagliano gli alberi e ci sono segherie, sì ci sono incendi a scopi agricoli, sì ci sono nuovi insediamenti prodotto dell'indefinito. La riserva della biosfera è senza dubbio minacciata dalla prospezione industriale, tanto petrolifera quanto biologica e soffre per la contaminazione fisica e sociale degli accampamenti militari, ma è anche minacciata dalla colonizzazione disordinata delle comunità indigene.

Stima lunga, la crisi dei Montes Azules non si esaurisce in una cospirazione per sgomberare gli indios e far passare le imprese. È molto più di questo: è esempio paradigmatico della crisi terminale di un sistema escludente e predatorio che porta all'estremo la contraddizione natura-società. Non si tratta di un conflitto circostanziale ma di un crocevia di civiltà.

Le velleità autoritarie e repressive del governo, come la cupidigia illimitata delle multinazionali, possono essere contrastate per un po' attraverso campagne di opinione. Possiamo defenestrare un funzionario stordito e perfino bruciare le dita di un impresario vorace. Ma l'indebolimento catastrofico del modello capitalista è molto più difficile da invertire. Correggere la logica escludente ed ecocida del denaro richiede una rivoluzione. E non sto parlando di prendere il palazzo e sedersi sulla poltrona presidenziale, ma di sovvertire la dinamica di tabula rasa sociale e ambientale che soggiace alla dittatura del mercato. Una grande rivoluzione tecnologica, economica e sociale che non deve avvenire in una volta sola, che si può sperimentare in piccolo e poco a poco.

In Chiapas i protagonisti di questa radicale sovversione sono gli indios. Le comunità che molte volte sono state esecutrici dell'ecocidio per conto del capitale, che hanno insanguinato la selva ed hanno sanguinato con essa, quelli che tagliano e bruciano perché non possono fare altro stanno cambiando il cammino. Non saranno la Banca Mondiale con i suoi Corridoi Biologici Mesoamericani, né il repressivo conservatorismo governativo, né i tesorieri privati della biodiversità, né gli ambientalisti controinsurrezionali: la conservazione, la riproduzione ed il ristabilimento degli ecosistemi fragili e biodiversi, sarà opera delle comunità che ne usufruiscono o non lo sarà affatto.

Ma ne Las Cañadas e nei Montes Azules il rapporto tra gli indios e l'ambiente è molto deteriorato.

Essere i "guardiani della selva" è facile a dirsi ma non è cosa qualsiasi, si richiedono intense attività organizzative all'interno e tra le comunità, attività di diagnosi, attività di pianificazione.

Soprattutto si richiede un rovesciamento culturale, un ripensamento degli usi e costumi produttivi che senza dubbio è in assonanza con l'indole profonda della comunità indigena e campesina ma che si è pervertita e deve essere ripristinata, e reinventata.

Per questo esistono alternative tecnologiche precise: la milpa si può sedentare con leguminose; la sarchiatura, taglio e bruciatura potrebbero ridurre il rischio di incendi; i modelli agricolo-silvestre-patorizio permettono di combinare in maniera sostenibile lo sfruttamento del bosco con l'allevamento e le coltivazioni; il caffè senza sostanze chimiche e coltivato all'ombra si rivaluta sul mercato.

Ma la chiave non sta in ricette e prescrizioni tecnologiche, ma nell'esistenza di una forza sociale disposta a percorre nuove strade.

Nel Municipio Autonomo Ricardo Flores Magón, ubicato nei Montes Azules, gli zapatisti non solo si apprestano a resistere al possibile sgombero, ma hanno intrapreso una rivoluzione ambientale: hanno proibito di tagliare e bruciare la montagna nella riserva e nei suoi dintorni e seminano la milpa solo con acahuales (specie di girasole), cioè in aree che erano già state disboscate e presentano una vegetazione secondaria. Applicando queste norme, si sono dovuti scontrare con insediamenti non zapatisti responsabili di incendi e disboscamenti. Può sembrare poco, eppure si tratta di una decisione politica e produttiva trascendente.

"Se gli lasciamo bruciare la montagna, che dirà il nostro municipio? - hanno detto al giornalista Hermann Bellinghausen -. Siamo i primi a dover cambiare per evitare la distruzione. Non è vendere legno e palme il cibo di cui abbiamo bisogno".

Certo non possono farlo da soli.

Invertire la crisi ambientale planetaria presuppone colossali cambiamenti nei rapporti di forza e tocca a tutti. Anche se in scala più modesta, arrestare il degrado dei Montes Azules e di tutta la Selva Lacandona non è compito di qualche comunità e qualche municipio, ma richiede programmi integrali e politiche pubbliche con priorità molto diverse da quelle attuali.

Ma si comincia sempre da qualche parte.

Si dirà anche che questa rivoluzione dal basso, impossibile senza autogestione democratica, economia di giustizia, sfruttamento sostenibile delle risorse e soprattutto, senza cambiare le regole politiche, tecniche ed economiche del capitale, non sarà fattibile se prima non arrestiamo la cospirazione multinazionale per espellere gli indios dai Montes Azules.

Certamente.

Ma questa urgente campagna sarà superficiale se non andiamo alla radice.

E oltre che superficiale sarà fallimentare se i rapporti di forza necessari per frenare i mandanti del sistema, non si costruiscono intorno ad un paradigma alternativo.

Nel caso dei Montes Azules non si tratta di opporre i difensori della purezza angelica degli indios ai difensori della purezza immacolata dell'ambiente, si tratta di sommare le forze.

La causa lo merita.


(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)



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