LA JORNADA - Mercoledì 23 gennaio 2002

Il popolo ha recuperato Nezahualcóyotl come simbolo di lotta

Atenco guarda al passato in difesa della sua terra... e della sua vita

Non ci sono espressioni di abbandono o di rassegnazione, solo rabbia

"Speriamo in Dio che non succeda nulla", dice il leader del movimento

MARIA RIVERA

Adesso viene il bello, avverte don Francisco Alarcón Huerta, un contadino di 76 anni, nato e cresciuto in San Salvador Atenco, con gli occhi di chi ha visto maturare, in "tempo di verde" molti campi coltivati, però ha anche conosciuto periodi di siccità e di fame.

Di fronte al gruppo di uomini che lo circonda nella piazza del popolo, che è diventata il centro del movimento di resistenza contro la costruzione del nuovo aeroporto della Città del Messico, dice: "Speriamo in Dio che non succeda niente, però se succede, che faremo? Ci difenderemo!".

Segnalano i piccoli pezzi di artiglieria che utilizzano durante i festeggiamenti del 5 maggio. "Con quei cannoncini, con bastoni, con ciò che si vuole... A noi l'aeroporto ed i dollari non servono a niente. Saremo come gatti in una macelleria: guardando le salsicce e senza poterle mangiare".Sa molto, dicono i suoi accompagnatori in un sussurro. Parla náhuatl, conosce la storia degli antichi, dei mexicas; la vita di Netzahualcóyotl, il re-poeta, e la partecipazione del popolo durante la Rivoluzione. Ha le risposte che servono alla comunità per ricostruire la sua storia.

Lentamente, prima in náhuatl e poi in spagnolo, il contadino parla delle gesta dell'Esercito di Zaragoza. Le parole parlano della nuova e sempre uguale lotta per la terra.

"Fratelli messicani: è arrivato il momento di prendere le armi, perché nelle nostre terre sono arrivate truppe di differenti nazioni. Non permetteremo che si portino via ciò che i nostri nonni, i nostri antenati, ci hanno lasciato. Vogliono farla finita con noi, perderci, ammazzarci come animali. Non glielo permetteremo, non molleremo. Se dobbiamo morire, lo faremo, noi, i nostri figli, le nostre mogli: però non lasceremo che si prendano ciò che è nostro".

Silenzio attorno a lui, si stringono i pugni

A Texcoco non ci sono espressioni di abbandono, di rinuncia, di stanca e, ancor meno, di rassegnazione. Solo rabbia.

Dal 22 ottobre, data in cui hanno ricevuto la notificazione di esproprio - che loro definiscono una "sentenza di morte come popolo" -, hanno volto lo sguardo ai simboli dei loro antenati ed intrapreso un cammino, lungo, stancante, però scelto da loro, di resistenza contro il potere federale.

La costernazione ed il dolore sono durati appena un giorno.

Hanno saputo che, da una scrivania del governo federale, qualcuno indifferente alla loro storia aveva deciso "per la pubblica utilità" che 4 mila e 500 ettari, distribuiti in 13 ejidi, sarebbero stati trasformati in edifici, asfalto, aree di operazioni del nuovo terminal aereo. Cemento ed asfalto privatizzato, dato che secondo la Segreteria per le Comunicazioni e il Trasporto, le opere si finanzieranno, in gran parte, con capitale privato nazionale e estero.

Con il buon senso comune che la povertà dà da sempre, hanno fatto suonare le campane della chiesa del Divino Salvatore ed, uniti, hanno deciso di difendere il loro campo, la loro terra, la loro vita. Armati di machete e bastoni, si sono raccomandati a San Salvadorcito, hanno affrontato la forza pubblica ed hanno bloccato la strada federale Texcoco-Lechería.

Così, questi polverosi paesi ignorati, dove nessun capitolino si addentra, salvo quando cerca una lavoratrice domestica o un peone, si sono affacciati sulle prime pagine dei quotidiani e sono spuntati nei principali notiziari della notte col loro rotondo no al potere.

Sono in ribellione. Lo dicono a chiare lettere.

I paesi colpiti dal decreto si muovono come uno solo, negando nei fatti le affermazioni dei funzionari del governo mexiquense che sono solo pochi quelli che non vogliono accettare le indennizzi che vanno tra i 70 ed i 250 mila pesos.

Basta che qualcuno faccia partire un razzo, annunciando l'arrivo di un macchinario o di personaggi sospetti, perché tutti vadano a vedere che succede e chi c'è da bloccare.

Rielaborazione della storia

Oggi la vita di Atenco passa per la piazza. Lì, a mo' di coro, ricordano, conversano e giudicano le incarnazioni del movimento di resistenza. Il senso collettivo è attento. Che racconta quello, che dice quest'altro, che dettaglio resta da chiarire. Non è possibile una chiacchierata tra due. Quando meno uno se l'aspetta, qualcuno spunta fuori, da un estremo del coro, con un: "no, le cose non si sono svolte così, è successo questo e quest'altro ancora".

In questa rielaborazione della loro storia, una delle figure che ritornano più volte, come simbolo della loro lotta, è quella di Netzahualcóyotl, re di Texcoco, che diede vita alla tripla alleanza con Tacuba e Tenochtitlán, prima dell'arrivo degli spagnoli. Siamo un popolo con le radici, ripetono a coloro che vogliono ascoltarli, perché se qualcosa è rimasto loro delle dichiarazioni per spiegare il decreto d'esproprio è che qualche ottuso funzionario ha detto che Atenco era sorto appena qualche decennio indietro, nel 1928, quando hanno ricevuto i primi titoli di proprietà ejidali.

Siamo eredi dei primi messicani, affermano orgogliosi. Come segnale della loro identità mostrano il parco degli ahuehuetes, dove aveva il suo giardino il sovrano-poeta. Era un paradiso, con tanti, innumerevoli ruscelli, che arrivavano fino al lago. E, sul vicino monte di Huatepec, affermano come se lo vedessero, lui si sedeva a scrivere poesie, mentre guardava il lago.

Però non tutto è storia antica. Ricordano pure che i loro genitori e i loro nonni sono stati peones nella hacienda grande, guadagnando 12 centesimi quotidiani per le giornate dal sole al sole, agli inizi del secolo scorso. Hanno provato quello che erano i debiti infiniti negli spacci del proprietario terriero e che cos'era non avere nemmeno un cognome proprio, perché si doveva comprarlo o aspettare che lo concedesse il padrone. E quelli che non avevano niente, si sono messi come cognome Pájaro, perciò ce ne sono tanti che svolazzano per il paese. Così quando scoppiò la Rivoluzione sono andati a combattere con gli zapatisti, per avere un pezzo di terra, loro, proprio, dove nessuno dicesse loro che fare o che non fare.

E grazie a quella lotta adesso la possiedono, la terra.

No, tornano a ripetere, non è vero che siano un popolo senza storia.

Ed hanno ragione a dire che in Atenco il passato affiora ad ogni passo, non è una metafora.

Pezzi di origine preispanica appaiono mentre arano le loro terre o rimangono allo scoperto quando cade la pioggia.

Un gruppo di bambini dipinge un murales esprimendo il rifiuto dell'aeroporto su uno dei muri del paese.

Néstor Altamirano, di nove anni, è uno di loro. Tra aeroplanini, campi coltivati e soli, disegna una figurina simile a quella che ha trovato suo nonno mentre lavorava nel campo, a cui manca "un pezzettino nella testa".

"Non desidero che si edifichi il terminal aereo", dice, aprendo ancora di più i suoi grandi e brillanti occhi. Da grande gli piacerebbe fare l'archeologo, per mostrare gli idoli ai turisti. "Perché loro - dice puntando verso la sua creazione - sono le nostre radici".

Pochi come don Miguel del Valle Rosas, di 85 anni, hanno così tanto la stria passata.

Aveva 10 anni quando suo fratello Odilón, dirigente contadino, organizzò gli uomini della zona per andare a prendere i titoli di proprietà a Chalco alla fine degli anni venti. Ricorda la felicità che li riempì.

Continuavano ad essere poveri, certo. "Però uno andava già con fiducia al suo campo, perché sapeva dove seminare senza che nessuno gli dicesse niente".

Erano tempi nei quali tutto il mondo era contadino, si parlava in "messicano" (náhuatl) e non c'erano né fabbriche né niente di tutto ciò.

Grandi fiumi alimentavano il lago di Texcoco che brillava traboccando. L'acqua sgorgava abbondante dai pozzi attraendo la vegetazione. Gli abitanti della sponda, come quelli di Atenco, avevano sempre alla mano dei pesci, delle anatre, dei chichicuilotes (uccelli), ahuahutle (uova di pesce), mosca e vermicelli per esche. E in primavera uscivano a raccogliere rosmarino, lauro o quello che Dio donava.

Le terre erano tanto fertili che davano tre raccolti di mais. Gli ahuehuetes di Netzahualcoyotl avevano molto fogliame ed attraevano così tanti visitanti che Lázaro Cárdenas - "l'unico presidente che ci ha favorito" - ha mandato a costruire il parco ed un piccolo museo per esibire i resti archeologici ritrovati in zona. Arrivavano pure molte peregrinazioni per visitare il Signore di Esquipulas, immagine che si venera in una piccola cappella costruita nel 1571.

Però un giorno, continua il suo racconto don Miguel del Valle, sono cominciati i brutti tempi.

Hanno deciso di asciugare il lago ed ha smesso di piovere. Hanno iniziato a scarseggiare gli uccelli e le forze della terra davano un solo raccolto. Si sono installate fabbriche nelle vicinanze del municipio, come quella di Sosa Texcoco, che estraevano ed elaboravano derivati di alga spirulina.

Nel 1993 l'impresa è fallita e se n'è andata, lasciando senza lavoro più di 600 famiglie e con gravi strascichi per l'ecologia. Aveva estratto così tanta acqua durante più di 30 anni che i manti freatici sono scesi, lasciando, presto gli ahuehuetes senza risorse.A metà degli anni '80 l'autorità municipale ha deciso che i moribondi alberi erano inservibili e li ha mandati a tirar giù. Al loro posto ora crescono alcuni squallidi eucalipti, però la maggior parte del posto è occupata da piscine, tobogan e alcune hollywoodiane repliche delle piramidi preispaniche.

Del giardino dell'imperatore-poeta resta solo la leggenda. Alcune notti, a volte per la pena, aggiunge don Miguel, si può ancora ascoltare Netzahualcóyotl cantare e recitare i suoi poemi in náhuatl.

"Per finire di seccare tutto ci hanno tolto Tláloc negli anni '60. Sono andati a Cuautlinchán - paese a neanche cinque chilometri di Atenco - e se lo sono portati via con la forza. Che poteva fare la gente? Il governo ha detto me lo prendo e se lo son portati via. Avesse visto, come le mie dita, così allineati, stavano i soldati ai lati della strada. Da allora è arrivata la siccità e sono arrivati i brutti tempi".

Lotteria? Nemmeno un rientro!

I tempi brutti, per questo contadino che educò i suoi sette figli con il frutto del suo campo, comprende i tempi attuali. Non crede che con l'aeroporto gli abitanti della zona vincano una lotteria. Nemmeno rientrino. "Dicono che miglioreremo, bugia! Il popolo che va a fare senza le sue terre... Ah! no, magari non ci crede però moriremo di tristezza, messi in un buco come topi".

Per l'archeologo Luis Morett Alatorre, uno dei maggiori conoscitori della zona e direttore del museo dell'Università di Chapingo, è comprensibile che un popolo torni a guardare verso il suo passato, di fronte ad un fatto che potrebbe far finire il suo mondo. "Forse ci sono inesattezze storiche - avverte - però io non mi azzarderei a mettere in dubbio le loro credenze. Se loro hanno necessità di recuperare la figura di Netzhualcoyotl ,avanti! I popoli sono quello che sono, però anche quello che vogliono essere". Nel caso che il progetto proceda, continua, si prevede un'immigrazione di massa verso l'area (Texcoco passerebbe da 200 a 600 mila abitanti in tre anni), con un deterioramento scandaloso del livello di vita, carenza di servizi e disarticolazione delle forme di organizzazione del lavoro e dei valori culturali delle comunità. "Qualcosa di similare a ciò che è successo in Netzahuacóyotl, Chimalhuacán e Nuevo Chalco".

José Saramago racconta, nel libro La Caverna, la sensazione del vasaio Cipriano Algor, quando ha ricevuto la notizia che la fabbrica che comprava i suoi piatti e vasi di ceramica aveva deciso di comprarne di meno, di fronte all'avanzata dei prodotti di plastica. "L'ordine è arrivato dall'alto, dai superiori, da qualcuno per cui è indifferente che ci sia un vasaio in più o in meno al mondo. Quello che è successo può essere il primo passo; il secondo è che smettano di comprare definitivamente. Dobbiamo prepararci a questo disastro, sì, prepararci, però mi piacerebbe davvero sapere come si prepara una persona ad incassare una martellata in testa".


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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