da il manifesto del 10 novembre

E adesso gli indios non marciano più soli

Dalle selve del Chiapas alle strade rinascimentali di Firenze una catena ideale contro la globalizzazione sfrenata e il mercato selvaggio.

Una causa persa? I sopravvissuti dei 50 milioni di indigeni del continente americano sembravano condannati a una lotta di pura resistenza e di retroguardia. Invece...

GIANNI PROIETTIS - SAN CRISTÓBAL DE LAS CASAS

Sembrava una causa persa e una resistenza di retroguardia, di mera sopravvivenza di fronte alle spinte, forse brutali ma inarrestabili, per la modernità e il progresso. Invece a 510 anni dall'avvistamento ufficiale del nuovo mondo da parte di Cristoforo Colombo, la voce degli "scoperti" - più di 400 popoli indo-americani superstiti, circa 50 milioni di abitanti originari - torna a farsi sentire sempre più forte. E dalla retroguardia si ritrova all'avanguardia. Ma, soprattutto, non più solitaria e residuale bensì inserita nel grande fiume del movimento contro la globalizzazione sfrenata e il mercato selvaggio. Gli indios non sono più soli a resistere e proporre "un altro mondo possibile", anelli ideali di una catena che va dalle selve del Chiapas alle strade rinascimentali di Firenze. Una "guerra" che sembrava chiusa ma che è soltanto agli inizi. E che durerà a lungo. Ne sono una riprova anche le manifestazioni del 12 ottobre scorso, anniversario della "scoperta", nel continente americano. La novità è che in molti paesi gli indios non sono sfilati soli. A Santiago del Cile, i mapuche hanno fatto un solo corteo con punks e omosessuali.

In Guatemala, Honduras e tutto il Centroamerica le manifestazioni hanno preso di mira il Plan Puebla Panama, nuovo corridoio dello "sviluppo" multinazionale, e l'Alca, l'Area di Libero Commercio delle Americhe propugnata da Washington. In Brasile, indios, afro-americani e sem terra si sono uniti nel sostenere la candidatura - e l'elezione - di Lula alla presidenza. Negli Stati Uniti le proteste hanno riguardato le condizioni degli immigranti in generale e il trattamento inumano dato agli illegali, specie dopo l'11 settembre.

In tutto il continente, dal Grande Nord del Québec alla Patagonia, si è ricordata la lunga stagione di orrori aperta da quel fatidico 12 ottobre 1492 e, soprattutto, si sono denunciati i mille aggiornamenti di una Conquista che dura da cinque secoli: l'ingiusto e impagabile debito estero, il saccheggio delle risorse naturali, i mega-progetti devastanti delle multinazionali, la perdita dell'auto-sufficienza alimentare, l'imposizione di regole commerciali asimmetriche, la repressione e l'uso della forza lavoro migrante.

In Messico, le manifestazioni hanno incluso blocchi stradali in vari stati e l'occupazione di molti posti di frontiera con gli Stati uniti e con il Guatemala. Nello stato di Chihuahua, i campesinos hanno bloccato il ponte internazionale di Santa Fe, che porta in Texas, protestando contro i sussidi agricoli statunitensi, le centinaia di giovani donne uccise negli ultimi anni a Ciudad Juarez - probabilmente il più lungo serial killing della storia -, la militarizzazione della frontiera e - perché no - la guerra di Bush contro l'Iraq.

I tarahumara, resi celebri da Antonin Artaud, ma oggi decimati da denutrizione e mortalità infantile, hanno bloccato in decine di punti le strade statali del nord. Protestavano contro il saccheggio delle loro foreste, la politica agraria del governo e la possibile firma dell'Alca.

A Città del Messico, la mobilitazione è stata indigena e popolare insieme. Al corteo, che si è snodato dal monumento alla Rivoluzione allo Zocalo, hanno partecipato indios, studenti, operai, intellettuali e sindacalisti. Domandavano tutti l'applicazione degli accordi di San Andrés, firmati nel 1996 fra il governo e l'Ezln e mai rispettati. Ed erano ugualmente uniti nel rifiutare i tentativi di privatizzazione dell'industria elettrica e dell'educazione, portati avanti in maniera sempre meno strisciante dal governo Fox.

Nello stato di Guerrero, dove la miseria indigena e la guerriglia sono considerati mali endemici, un intero fronte di organizzazioni ha manifestato contro il Plan Puebla Panama, l'imposizione delle politiche governative e lo stato di completo abbandono delle comunità indigene.

"Il solo intervento del governo che vediamo", dice Xatul Cruz, militante di un'organizzazione contadina, "è quello di mandarci i soldati. E questo lo chiamano "riconoscimento" dei diritti indigeni? E' da qui che vogliamo cominciare un nuovo Messico?".

Il disappunto di Xatul è condiviso dalla maggioranza dei 12 milioni di indios messicani, che si sentono beffati dalla ley indigena votata nell'aprile dell'anno scorso dal Congresso. Sono proprio gli stati con maggiore presenza indigena - Guerrero, Oaxaca e Chiapas - ad essere i più colpiti dalla repressione militare.

In Chiapas, ci sono state manifestazioni in più di trenta municipi e una dozzina di blocchi stradali. A San Cristóbal, un lungo corteo è andato a chiudere simbolicamente la base militare di Rancho Nuevo, all'uscita della città. Gli striscioni domandavano il ritiro dell'esercito dalle comunità, il disarmo delle bande paramilitari e il rispetto degli accordi di San Andrés.

Chiapas è lo stato in cui la ley indigena passata nell'aprile 2001 ha fatto più guasti. Da allora, si sono intensificate le aggressioni dei paramilitari, sono aumentati gli omicidi di basi zapatiste e la presenza dell'esercito è più oppressiva che mai. "È la legge dei diritti dei razzisti e dei latifondisti", avevano ironizzato allora gli zapatisti, prima di rinchiudersi in un silenzio che dura da diciotto mesi.

Quella legge, che riduceva i già scarsi diritti dei popoli originari, fu vissuta come una tragica beffa dal movimento indio, anche perché venne approvata dopo la storica entrata degli zapatisti in parlamento, un evento che attirò l'attenzione mondiale.

Decisi a continuare la lotta anche sul piano giuridico, ben 322 municipi indigeni impugnarono la costituzionalità della nuova legge e il procedimento della sua approvazione. Non solo la ley indigena era stata votata senza rispettare le procedure, ma violava clamorosamente un trattato internazionale firmato dal Messico - il 169 della OIT - che obbliga a consultare le popolazioni indigene per qualunque decisione le riguardi. Nel settembre scorso, però, la Suprema Corte de Giustizia della Nazione, con una sentenza che rivela la completa chiusura istituzionale, ha respinto i ricorsi, dichiarandosi incompetente.

"È una vera infamia", dice la scrittrice Elena Poniatowska, "una catastrofe per tutti i messicani, non solo per gli indigeni. Il processo di pacificazione in Chiapas è minacciato da questa sentenza. La decisione segrega nuovamente gli indigeni e ci riporta indietro di 500 anni, come se non ci fosse civilizzazione, come se non avessimo progredito né appreso niente".

Alla vigilia delle manifestazioni del 12 ottobre, Manuel Hernandez Perez, portavoce della Coao, la Coalición de Organizaciones Autónomas de Ocosingo che raggruppa una decina di organizzazioni indie, ha dichiarato: "Nessuno dei tre poteri ha capito la nostra lotta. Hanno chiuso le porte alla pace con giustizia e dignità. Lo Stato messicano si preoccupa solo per gli interessi delle multinazionali e per il Plan Puebla Panama".

Ma se è vero che le istituzioni hanno tradito sfacciatamente gli impegni presi con i popoli indigeni, perpetuando la tradizione razzista dei conquistadores, è anche vero che, dal marzo 1998, più di 40 municipi zapatisti si sono dichiarati autonomi cominciando a mettere in pratica il contenuto degli accordi.


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