L'uovo del serpente

Nell'incubatrice del neoliberismo si nascondono le radici di un nuovo fascismo. E della moderna ingiustizia sociale: meno persone hanno più ricchezze prodotte da più persone con meno ricchezze. E' l'ossimoro della globalizzazione.

Una versione ridotta di questo testo - che il subcomandante Marcos ha inviato a Il manifesto, Carta e Liberazione - è stata pubblicata su Il manifesto del 21 maggio.

testo integrale

(traduzione di Sandro Ossola)

ripreso dalla pag. web http://www.ilmanifesto.it


Subcomandante Marcos

- IL NOSTRO PROSSIMO PROGRAMMA:

OSSIMORO!

(LA DESTRA INTELLETTUALE E IL FASCISMO LIBERALE)


"Nella figura retorica chiamata ossimoro,

si applica a una parola un aggettivo che

sembra contraddirla; così gli gnostici

parlavano di una luce oscura; gli

alchimisti di un sole nero."

Jorge Luis Borges

Avvertenza, introduzione e promessa

Attenzione: Se non avete letto l'epigrafe, è meglio che lo facciate adesso, altrimenti non capirete alcune cose.

Un fatto incontestabile: la globalizzazione c'è. Non la giudico (ancora), semplicemente indico una realtà. Però, come primo ossimoro, occorre segnalare che si tratta di una globalizzazione frammentata.

La globalizzazione è stata resa possibile, fra le altre cose, da due rivoluzioni: quella tecnologica e quella informatica. Ed è stata, ed è, diretta dal potere finanziario. La tecnologia e l'informatica (e con esse il capitale finanziario) hanno fatto scomparire le distanze e hanno rotto le frontiere. Oggi è possibile avere informazioni su qualunque parte del mondo, in qualunque momento e simultaneamente. Ma anche il denaro ha ora il dono dell'ubiquità: va e viene a velocità vertiginosa, come se fosse in ogni luogo nello stesso momento. Di più, il denaro dà uno nuova forma al mondo, la forma di un mercato, di un mega-mercato.

Tuttavia, nonostante la "mondializzazione" del pianeta, o meglio, proprio a causa di questa, l'omogeneità è ben lungi da essere la caratteristica di questo passaggio di secolo e di millennio. Il mondo è un arcipelago, un rompicapo i cui pezzi si trasformano in altri rompicapo, e l'unica cosa davvero globalizzata è la proliferazione dell'eterogeneità.

Se la tecnologia e l'informatica hanno unito il mondo, il potere finanziario che le utilizza lo ha spezzato usandole come armi, come armi in una guerra. Abbiamo detto in precedenza (il testo si chiama "La quarta guerra mondiale è cominciata", EZLN - il manifesto, 1997/ o 7 pezzi sciolti del rompicapo mondiale - EZLN, 1997) che con la globalizzazione si porta a termine una guerra mondiale, la quarta, e si sviluppa un processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino (sto cercando di riassumere concisamente, siate comprensivi) in tutto il pianeta. Per la costruzione del "nuovo ordine mondiale" (Planetario, Permanente, Immediato e Immateriale, secondo Ignacio Ramonet), il potere finanziario conquista territori e abbatte frontiere, e lo fa con una guerra, una nuova guerra. Una delle vittime di questa guerra è il mercato nazionale, base fondamentale dello Stato-Nazione. Quest'ultimo è in via di estinzione, o quantomeno lo è nella sua forma tradizionale o classica. Al suo posto sorgono mercati integrati, o meglio ancora i negozi del grande "centro commerciale" mondiale, il mercato globalizzato.

Le conseguenze politiche e sociali di questa globalizzazione sono un Ossimoro reiterato e complesso: meno persone con più ricchezze, prodotte da più persone con meno ricchezze, la povertà del nostro secolo non è confrontabile con nessun'altra. Non è, come è accaduto a volte, il risultato naturale di carestie, ma di un insieme di priorità imposte dai ricchi al resto del mondo (John Berger, Cada vez que decimos adiós. Ediciones de la Flor, Argentina, 1997. Pp. 278-279.). Per alcuni potenti il pianeta si è spalancato; per milioni di persone il mondo è un non-luogo, e vagano errabondi da una parte all'altra. La criminalità organizzata costituisce la spina dorsale dei sistemi giudiziari e dei governi (gli illegali fanno le leggi e "conservano l'ordine pubblico"), e la "integrazione" mondiale moltiplica le frontiere.

Così, volendo mettere in risalto alcune delle principali caratteristiche dell'epoca attuale, dovremmo dire: supremazia del potere finanziario, rivoluzione tecnologica e informatica, guerra, distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino, attacco allo Stato-Nazione, conseguente ridefinizione del potere e della politica, il mercato come figura egemonica che permea tutti gli aspetti della vita umana in ogni luogo, maggior concentrazione della ricchezza in poche mani, maggior distribuzione della povertà, aumento dello sfruttamento e della disoccupazione, milioni di persone in esilio economico, delinquenti che si fanno governo, disintegrazione del territorio. Riassumendo: globalizzazione frammentata.

Bene, secondo queste premesse, nel caso degli intellettuali (posto che abbiano a che vedere con la società, il potere e lo stato) sarebbe il caso di domandarsi: hanno subito lo stesso processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino? Quale ruolo assegna loro il potere finanziario? Come usano (o sono usati da) i progressi tecnologici e informatici? Che posizione hanno in questa guerra? Come si rapportano con questi minacciati Stati-Nazione? Qual è il loro legame con questo potere e con questa politica così ridefiniti? Che posto occupano nel mercato? e che posizione prendono di fronte alle conseguenze politiche e sociali della globalizzazione? Insomma: come si inseriscono in questa globalizzazione frammentata?

Il mondo sarebbe cambiato da e per questa guerra. Se così fosse, gli intellettuali "classici" non esisterebbero più, e nemmeno le loro tradizionali funzioni. Al loro posto una nuova generazione di "teste pensanti" (per usare un termine coniato dal comandante zapatista Tacho) sarebbe emersa (o starebbe per emergere) e avrebbe nuove funzioni nei propri compiti intellettuali.

Anche se cercheremo qui di limitarci agli intellettuali di destra, saranno evidenti alcune indicazioni a proposito degli intellettuali in genere e sui loro rapporti con il potere. Dato che questo testo si propone di partecipare e di alimentare la polemica fra intellettuali di destra e di sinistra, una riflessione più profonda su intellettuali e potere e su intellettuali e trasformazione, è rinviata a futuri e improbabili scritti.

Bene. Salve, e tenete a portata di mano il vostro telecomando. Fra un minuto cominciamo...

1 - LA MONDIALIZZAZIONE: PAY PER VIEW

In bilico sulla cerniera del calendario, il duemila pencola fra il XX e il XXI secolo e fra il secondo e il terzo millennio. Non so quanto sia importante questo computo del tempo, ma mi pare comunque che sia il momento appropriato perché da ogni parte sorga OSSIMORO. Per non andare troppo lontano, si può dire che quest'epoca è il principio della fine o la fine del principio di "qualcosa". "Qualcosa": modo irresponsabile di eludere un problema. Ma già si sa che la nostra specialità non è quella di risolvere i problemi, ma di crearli. Crearli? No, è troppa presunzione: diciamo proporli. Sì, la nostra specialità e proporre dei problemi.

Lassù tutto sembra essere già accaduto in precedenza, come se un vecchio film si ripetesse con altre immagini, altre risorse cinematografiche, persino altri attori, ma con lo stesso soggetto. Come se la "modernità" (o "postmodernità": lascio la distinzione a chi se ne voglia prendere il disturbo) della globalizzazione si vestisse del suo OSSIMORO e ci si presentasse come una modernità arcaica, ammuffita, antica.

Se quello che sto dicendo vi sembra una valutazione meramente soggettiva, addebitatelo al nostro stare in montagna, resistenti e ribelli, ma concedeteci il lusso di leggerci e deciderete poi se si tratta di un nuovo sintomo del "mal di montagna" o se condividete questa sensazione di déjà-vu che fluisce attraverso quell'ipercinema che è il mondo globalizzato.

Il mondo non è quadrato, o almeno questo si insegna a scuola. Però, sul discrimine della cerniera fra due millenni, il mondo non è neppure rotondo. Non so quale sia la figura geometrica adatta a rappresentare la forma attuale del mondo, ma dato che siamo nell'epoca della comunicazione digitale audiovisiva, potremmo tentare di definirla come un gigantesco schermo. Voi potete aggiungere "uno schermo televisivo", anche se io opterei per "uno schermo cinematografico". Non solo perché preferisco il cinema, ma anche (e soprattutto) perché ho l'impressione che ci troviamo davanti a un film, a un vecchio film, modernamente vecchio (per continuare con ossimoro).

E poi è uno di quegli schermi su cui è possibile programmare la proiezione simultanea di varie immagini (la chiamano picture in picture). Nel caso del mondo globalizzato, si tratta di immagini che si succedono in qualsiasi angolo del pianeta. Ma non sono tutte le immagini. E questo non perché sullo schermo manchi lo spazio, ma perché "qualcuno" ha scelto quelle immagini e non altre. Come dire che stiamo guardando uno schermo con diversi riquadri che ci presentano immagini simultanee da diverse parti del mondo. E' vero, ma non tutto il mondo è lì.

A questo punto uno inevitabilmente si domanda: "chi ha in mano il telecomando di questo schermo audiovisivo? e chi fa la programmazione?". Buone domande, ma qui non troverete le risposte. E non solo perché non le conosciamo con certezza scientifica, ma anche perché non sono l'argomento centrale di questo scritto.

Dato che non possiamo cambiare canale ( o sala), vediamo alcuni dei riquadri che ci presenta il megaschermo della globalizzazione.

Andiamo nel continente americano. In questo angolo abbiamo l'immagine dell'Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM) occupata da un gruppo paramilitare governativo: la cosiddetta Policía Federal Preventiva. Non sembra che stiano studiando, questi uomini in uniforme grigia. Più in là, incorniciata dalle montagne del Sudest messicano, una colonna di grigi blindati attraversa una comunità indigena chiapaneca. A fianco, l'immagine grigia ci mostra un poliziotto statunitense che arresta, con scialo di violenza, un giovane in una città che potrebbe essere Seattle o Washington.

Anche nel riquadro europeo prolifera il grigio. In Austria Joerg Haider e il suo fervore filonazista. In Italia, con l'aiuto disinteressato di D'Alema, Silvio Berlusconi si aggiusta il nodo della cravatta. In Spagna Felipe González fa il maquillage alla faccia di José Maria Aznar. Dalla Francia è Le Pen che ci sorride.

Asia, Africa e Oceania, nei loro rispettivi angoli, ci presentano lo stesso grigio che si ripete.

Mmh... Quanti grigi... Mmh... Possiamo protestare... Dopo tutto ci avevano promesso un programma a colori... Alziamo almeno il volume e cerchiamo di sentire di che si tratta.

2 - UN OBLIO MEMORABILE

Proprio come la globalizzazione frammentata, gli intellettuali "ci sono", sono una realtà della società moderna. E il loro "esserci" non si limita all'epoca attuale, risale ai primi passi della società umana. Ma l'archeologia degli intellettuali sfugge alle nostre possibilità di conoscenza; quindi partiamo dal fatto che "ci sono". In ogni caso quello che cerchiamo di scoprire è la forma che acquista adesso il loro "esserci".

Gli intellettuali, si sa, come categoria sono qualcosa di assai vago. Altra cosa è, invece, definire la "funzione intellettuale". Essa consiste nel determinare criticamente quel che si considera una soddisfacente approssimazione al proprio concetto di verità; e può svilupparla chiunque, persino un emarginato che rifletta sulla propria condizione e in qualche modo la esprima, mentre può tradirla uno scrittore che reagisca di fronte agli avvenimenti con passione, senza imporsi il filtro della riflessione. (Umberto Eco, Cinque scritti morali). Se le cose stanno così, allora il compito degli intellettuali è fondamentalmente analitico e critico. Di fronte a un accadimento sociale (per limitarci a questo universo) l'intellettuale analizza l'evidenza, ciò che è positivo e ciò che è negativo, cercando ciò che è ambiguo, che non è né una cosa né l'altra (anche se lo sembra), e mostra (comunica, rivela, denuncia) ciò che non solo non è evidente, ma addirittura contraddice l'evidenza.

Si deve supporre che nelle società umane ci siano persone che si dedicano professionalmente a questa analisi critica e a comunicarne il risultato (con le parole di Norberto Bobbio: Gli intellettuali sono tutti quelli per cui trasmettere messaggi è l'occupazione abituale e cosciente (...) e per dirla in un modo che può sembrare brutale, quasi sempre rappresenta anche il modo di guadagnarsi il pane). Atteniamoci a questa definizione dell'intellettuale, del professionista dell'analisi critica e della comunicazione.

Siamo già stati avvertiti del fatto che l'intellettuale non sempre esercita la sua funzione intellettuale. La funzione intellettuale si esercita sempre in anticipo (su ciò che potrebbe accadere) o in ritardo (su ciò che è accaduto); raramente su ciò che sta succedendo, per motivi di ritmo, perché gli avvenimenti sono sempre più rapidi e incalzanti della riflessione sugli avvenimenti stessi (Umberto Eco, op. cit.).

Per la sua funzione intellettuale, questo professionista dell'analisi critica e della sua comunicazione sarebbe una specie di coscienza scomoda e impertinente della società (in questa epoca, della società globalizzata) nel suo insieme e nelle sue varie parti. Una persona che non si accontenta di nulla, né delle forze politiche e sociali, né dello stato, del governo, dei mezzi di comunicazione, della cultura, dell'arte, della religione, né dell'eccetera che il lettore voglia aggiungere. Se l'attore sociale dice "ecco fatto!", l'intellettuale mormora scettico: "manca questo, c'è troppo di quest'altro".

Diciamo allora che l'intellettuale, nel suo ruolo, è un critico dell'immobilità, un promotore del cambiamento, un progressista. Tuttavia questo comunicatore di idee critiche è inserito in una società polarizzata, combattuta al proprio interno in molti modi e su diversi argomenti, ma fondamentalmente divisa tra coloro che utilizzano il potere per fare in modo che le cose non cambino e coloro che lottano per il cambiamento. L'intellettuale deve comprendere, per un elementare senso del ridicolo, che non gli viene conferito il ruolo di stregone dello spirito intorno al quale girerà l'essere o non essere della realtà storica, ma che evidentemente possiede dei saperi (...) che lo possono allineare in un senso o nell'altro della realtà storica. Può schierarsi a favore della ricerca di una spiegazione delle ingiustizie presenti nel mondo attuale o in favore della complicità con la paralisi e l'insediamento nel Limbo. (Manuel Vázquez Montalbán, Pamphlet dal pianeta delle scimmie. Feltrinelli, 1995. Pp. 44-45).

Ed è qui che l'intellettuale opta, sceglie tra la sua funzione intellettuale e la funzione che gli propongono gli attori sociali. Compare così la divisione (e la lotta) fra intellettuali progressisti e reazionari. Gli uni e gli altri continuano a lavorare sulla comunicazione delle analisi critiche, ma mentre i progressisti persistono nella critica dell'immobilità, della permanenza, dell'egemonia e dell'omogeneizzazione, i reazionari inalberano la critica del cambiamento, del movimento, della ribellione e della diversità. L'intellettuale reazionario "dimentica" la propria funzione intellettuale, rinuncia alla riflessione critica e ritaglia la propria memoria in modo che non ci sia né passato né futuro: il presente e l'immediato sono le uniche realtà che è possibile cogliere e, pertanto, sono indiscutibili.

Dicendo "intellettuali progressisti e reazionari", ci riferiamo agli intellettuali "di destra e di sinistra". Conviene aggiungere, qui, che l'intellettuale di sinistra esercita la sua funzione intellettuale, cioè l'analisi critica, anche nei confronti della sinistra (sociale, ideologica, di partito); ma nel momento attuale la sua critica si applica fondamentalmente al potere egemone: quello dei signori del denaro e di coloro che li rappresentano nel campo della politica e delle idee.

Lasciamo adesso gli intellettuali progressisti e di sinistra, e passiamo agli intellettuali reazionari, alla destra intellettuale.

3 - IL PRAGMATISMO INTELLETTUALE

In principio i giganti intellettuali di destra erano progressisti. E parlo dei grandi intellettuali, dei "think tanks" della reazione, non dei nani che sono andati iscrivendosi ai loro club "pensanti". Octavio Paz, ottimo poeta e saggista, il più grande intellettuale di destra degli ultimi anni in Messico, ha dichiarato: Vengo dal pensiero definito di sinistra. E' stato qualcosa di molto importante nella mia formazione. Non so adesso... l'unica cosa che so è che il mio dialogo - a volte la mia discussione - è con loro (gli intellettuali di sinistra). Non ho molto di cui parlare con gli altri. (Braulio Peralta, El poeta en su tierra. Dialogos con Octavio Paz.) E casi come quello di Paz vanno ripetendosi sul megaschermo globale.

L'intellettuale progressista, in quanto comunicatore di analisi critiche, si trasforma in oggetto e obiettivo per il potere dominante. Oggetto da comprare e obiettivo da distruggere. Per l'una cosa e per l'altra, viene posta in campo una quantità di risorse. L'intellettuale progressista "nasce" nel bel mezzo di questo clima di seduzione persecutoria. Alcuni resistono e si difendono (quasi sempre in solitudine: la solidarietà di categoria non sembra essere caratteristica degli intellettuali progressisti); ma altri, forse stremati, cercano nel proprio bagaglio di idee e tirano fuori quelle che possano essere al tempo stesso alibi e motivo per legittimare il potere. Il nuovo esige molto; il vecchio è già lì, quindi basta inalberare l'argomento dell'"inevitabile" perché il sistema offra loro una comoda poltrona (di volta in volta sotto forma di borsa di studio, posto, premio, spazio, ecc.) alla corte del Principe ieri tanto criticato.

"L'inevitabile" oggi si chiama: globalizzazione frammentata, pensiero unico (e cioè, la traduzione in termini ideologici e con pretese universali degli interessi di un insieme di forze economiche, in particolare quelle del capitale internazionale - Ignacio Ramonet, Un mondo senza direzione. Crisi di fine secolo), fine della storia, onnipresenza e onnipotenza del denaro, sostituzione della politica con la polizia, il presente come unico futuro possibile, razionalizzazione della diseguaglianza sociale, giustificazione del supersfruttamento degli esseri umani e delle risorse naturali, razzismo, intolleranza, guerra.

In un'epoca segnata da due nuovi paradigmi, comunicazione e mercato, l'intellettuale di destra (ed ex di sinistra) capisce che essere "moderno" significa adempiere alla parola d'ordine: Adattatevi o perdete i vostri spazi di privilegio!

Non deve nemmeno essere originale; l'intellettuale di destra ha già la cava da cui dovrà spaccare le pietre che adorneranno la globalizzazione frammentata: la cava del pensiero unico. L'asepsi non ha molta importanza: il pensiero unico ha le sue principali "fonti" nella Banca Mondiale, nel Fondo Monetario Internazionale, nell'Organizzazione per il Commercio e lo Sviluppo Economico, nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, nella Commissione Europea, nella Bundesbank, nella Banca di Francia, che attraverso i loro finanziamenti arruolano al servizio delle loro idee, in tutto il pianeta, numerosi centri di ricerca, università e fondazioni che, a loro volta, rifiniscono e diffondono la buona novella (Ignacio Ramonet, op. cit.).

Con tanta abbondanza di risorse, è facile che fioriscano delle élites che da anni si impegnano a fondo nel tessere le lodi del "pensiero unico"; che esercitano un vero e proprio ricatto contro ogni riflessione critica in nome della "modernizzazione", del "realismo", della "responsabilità" e della "ragione"; che affermano il 'carattere ineluttabile' dell'attuale evolversi delle cose; che predicano la capitolazione intellettuale e consegnano alle tenebre dell'irrazionale tutti quelli che rifiutano di accettare 'lo stato naturale della società e del mercato (Ibidem).

Lontani dalla riflessione, dal pensiero critico, gli intellettuali di destra diventano i pragmatisti per eccellenza, snaturano la funzione intellettuale e si trasformano in echi, più o meno fedeli, degli spot pubblicitari che inondano il mega-mercato della globalizzazione frammentata.

Rifunzionalizzati nella globalizzazione frammentata, gli intellettuali di destra modificano il loro essere e acquisiscono nuove "virtù" (tra le quali ricompare Ossimoro): un'audace vigliaccheria e una profonda banalità. Entrambe brillano nelle loro "analisi" del presente globalizzato e delle sue contraddizioni, nelle loro rivisitazioni del passato storico, nella loro chiaroveggenza. Si possono concedere il lusso dell'audace vigliaccheria e della profonda banalità perché l'egemonia universale quasi assoluta del denaro li protegge con torri di vetro antiproiettile. Per questo la destra intellettuale è particolarmente settaria e ha, per di più, il sostegno di non pochi mezzi di comunicazione e governi. L'ingresso in quelle alte torri intellettuali non è facile: bisogna rinunciare all'immaginazione critica e autocritica, all'intelligenza, all'argomentazione, alla riflessione, e optare per la nuova teologia, la teologia neoliberale.

Dato che la globalizzazione viene venduta come il migliore dei mondi possibili ma soffre una carenza di esempi concreti dei vantaggi che elargisce all'umanità, si deve ricorrere alla teologia e supplire con dogmi e fede neoliberista alla mancanza di argomenti. Il ruolo dei teologi neoliberisti comprende il denunciare e perseguire gli "eretici", i "messaggeri del male", cioè gli intellettuali di sinistra. E quale modo migliore di combattere i critici che accusarli di "messianismo"?

Di fronte all'intellettuale di sinistra, quello di destra infligge l'etichetta lapidaria di "messianismo stantio". Chi mai può mettere in questione un presente pieno di libertà, in cui chiunque può decidere che cosa compra, che siano articoli di prima necessità, ideologie, proposte politiche o condotte per ogni occasione?

Ma paradosso non perdona. Se c'è del messianismo da qualche parte, è nella destra intellettuale. Il Grande Circo degli Intellettuali Neoliberisti Chimicamente Puri o degli Ex Marxisti Pentiti o la Trilateral, possono essere messianici quando prefigurano la fatalità di un universo basato sulla verità unica, sul mercato unico e sull'esercito gendarme unico che vigila sulla raffica di flash che accompagna la fotografia finale della Storia, scattata davanti ai migliori paesaggi delle migliori società aperte. (Manuel Vázquez Montalbán op. cit. P.43).

La fotografia finale. O la scena clou del film della globalizzazione frammentata.

4 - I CHIAROVEGGENTI CIECHI

Parafrasando Régis Debray (Croire, Voir, Faire, Ed. Odile Jacob, Parigi 1999), il problema qui non è perché o come la globalizzazione sia irrimediabile, ma perché e come mai tutti, o quasi, siano d'accordo sul fatto che è irrimediabile. Una possibile risposta: La tecnologia del fare-credere (...). Il potere dell'informazione... In-formare: dare forma, formattare. Con-formare: dare conformità. Tras-formare: modificare una situazione (Ibidem).

Con la globalizzazione dell'economia si globalizza anche la cultura. E l'informazione. Così le grandi imprese della comunicazione "tendono" la loro rete sul mondo intero senza che nessuno glielo impedisca. Né Ted Turner della CNN, né Rupert Murdoch della News Corporation Limited, né Bill Gates della Microsoft, né Jeffrey Vinik della Fidelity Investments, né Larry Rong della China Trust and International Investments, né Robert Allen della ATT, esattamente come George Soros e decine di altri nuovi padroni del mondo, hanno mai sottoposto i loro progetti al suffragio universale (Ignacio Ramonet, op. cit.).

Nella globalizzazione frammentata le società sono fondamentalmente società mediatiche. I media sono il grande specchio, non di ciò che la società è, ma di ciò che deve mostrare di essere. Piena di tautologie e di ovvietà, la società mediatica è avara di ragioni e argomenti. In essa ripetere è dimostrare.

E quello che viene ripetuto sono le immagini, come quelle grigie che ci mostra ora lo schermo globalizzato. Debray ci dice: L'equazione dell'era visuale è qualcosa di simile a: visibile = reale = vero. Ecco l'idolatria rivisitata (e sicuramente ridefinita) (Regis Debray, op. cit.). E gli intellettuali di destra hanno imparato bene la lezione. Anzi, ne hanno fatto uno dei dogmi della loro teologia.

Dove è avvenuto il salto che identifica visibile con vero? Trucchi dello schermo globalizzato.

Il mondo intero, meglio ancora, la conoscenza intera adesso è a portata di mano di chiunque abbia una televisione o un computer portatile. Sì, ma non qualunque mondo e non qualunque conoscenza. Debray spiega che il centro di gravità delle informazioni si è spostato dallo scritto al visuale, dalla differita alla diretta, dal segno all'immagine. I vantaggi per gli intellettuali di destra (e gli svantaggi per i progressisti) sono ovvi.

Analizzando il comportamento dell'informazione in Francia durante la Guerra del Golfo Persico, si rivela il potere dei media: all'inizio del conflitto il 70% dei francesi si mostrava ostile, mentre alla fine la stessa percentuale la approvava. Sotto i colpi dei media, l'opinione pubblica francese si è "ribaltata" e il governo ha ottenuto il beneplacito per la partecipazione alla guerra.

Siamo nella "era visuale". Così le informazioni ci si presentano con l'evidenza dell'immediatezza, pertanto è reale ciò che ci viene mostrato, pertanto è vero ciò che vediamo. Non c'è posto per la riflessione intellettuale critica, al massimo c'è spazio per commentatori che "completino" la lettura dell'immagine. Il visuale non è fatto, in quest'epoca, per essere visto, ma per dare "conoscenza". Il mondo è diventato una mera rappresentazione multimediale - che sopprime il mondo esterno - in grado di essere conosciuta nella misura in cui viene vista. Sì: inizio del terzo millennio, XXI secolo, e la filosofia emergente nel nostro mondo "moderno" è l'idealismo assoluto.

Si possono già trarre alcune conclusioni: il nuovo intellettuale di destra deve svolgere la sua funzione legittimatrice nell'era visuale; optare per ciò che è diretto e immediato; passare dal segno all'immagine e dalla riflessione al commento televisivo. Non deve neppure sforzarsi per legittimare un sistema totalitario, brutale, genocida, razzista, intollerante ed escludente. Il mondo che è oggetto della sua "funzione intellettuale" è quello offerto dai media: una rappresentazione virtuale. Se nell'ipermercato della globalizzazione lo Stato-Nazione si ridefinisce come impresa fra le imprese, i governanti come direttori delle vendite e gli eserciti e le polizie come corpi di vigilanza, allora alla destra intellettuale compete l'area delle Pubbliche Relazioni.

In altre parole, nella globalizzazione gli intellettuali di destra sono "multiuso": becchini dell'analisi critica e della riflessione, giocolieri con le macine da mulino della teologia neoliberista, suggeritori dei governi che dimenticano lo "script", commentatori dell'ovvio, mazzieri di soldati e polizie, giudici gnoseologici che distribuiscono etichette di "vero" o "falso" a seconda delle convenienze, guardaspalle teorici del Principe e mezzibusti della "nuova storia".

5 - IL FUTURO PASSATO

Bruciare libri ed erigere fortificazioni è normale lavoro dei prìncipi, dice Jorge Luis Borges. E aggiunge che ogni Principe vuole che la storia cominci da lui. Nell'era della globalizzazione frammentata non si bruciano i libri (sebbene si erigano fortificazioni), però li si sostituisce. Così, più che sopprimere la storia precedente alla globalizzazione, il Principe neoliberista istruisce i suoi intellettuali perché la rifacciano in modo tale che il presente sia il culmine dei tempi.

I Truccatori della storia, così Luis Hernández Navarro ha intitolato un articolo dedicato al dibattito con gli intellettuali di destra in Messico (in Ojarasca - La Jornada del 10 aprile 2000). Oltre a stimolare il presente testo (scritto con l'intenzione di dar seguito alle sue premesse), Hernández Navarro ci avverte di una nuova offensiva: la nuova destra intellettuale punta le sue batterie contro le figure rappresentative dell'intellettualità progressista messicana. Redditiera tardiva della prosperità planetaria del "pensiero unico", rinnegatrice della propria identità, erede a contratto della caduta del muro di Berlino, socia ed emula del circuito culturale conservatore statunitense, questa destra è convinta che la critica culturale conceda credenziali sufficiente a emettere, senza argomentazioni, giudizi sommari contro i suoi avversari in campo politico (Ibidem).

Le ragioni non-ideologiche di questo attacco sono da ricercare nella contesa per uno spazio di credibilità. In Messico gli intellettuali di sinistra hanno grande influenza nella cultura e nell'accademia. Disturbano, questo è il loro delitto.

No, è piuttosto uno dei loro delitti. Un altro è l'appoggio che questi intellettuali progressisti danno alla lotta zapatista per una pace giusta e dignitosa, per il riconoscimento dei diritti dei popoli indio e per la fine della guerra contro gli indigeni del paese. Questo "peccato" non è veniale. La ribellione zapatista inaugura una nuova tappa, quella dell'irruzione dei movimenti indigeni come attori dell'opposizione alla globalizzazione neoliberista (Ivon Le Bot, Los indigenas contra el neoliberismo, La Jornada del 6 marzo 2000). Non siamo i migliori né gli unici: ci sono gli indigeni dell'Ecuador e del Cile, le proteste di Seattle e di Washington (e quelle che seguiranno nel tempo, non nell'importanza). Però siamo una delle immagini che distorcono il megaschermo della globalizzazione frammentata e, come fenomeno sociale e storico, richiediamo riflessione e analisi critica.

E la riflessione e l'analisi critica non si trovano nel "arsenale" della destra intellettuale. Come cantare le glorie del nuovo ordine mondiale (e il suo imporsi in Messico) se un gruppo di indigeni "premoderni" non solo sfidava il potere, ma si conquistava anche la simpatia di un'importante frangia di intellettuali? Di conseguenza il Principe ha dettato i suoi ordini: attaccate gli uni e gli altri, io ci metto l'esercito, voi metteteci le idee. E così la nuova destra intellettuale ha dedicato ironie e calunnie al suo contraltare di sinistra. A noi indigeni ribelli zapatisti ha dedicato... una nuova storia.

E, dato che lo zapatismo aveva un impatto internazionale, la destra intellettuale si è dedicata a questo compito in varie parti del mondo (non solo in Messico). Gli intellettuali di destra non solo imbellettano la storia, ma la rifanno, la riscrivono a convenienza del Principe e secondo la loro funzione intellettuale.

Ma torniamo in Messico. Nel corso di questo secolo gli intellettuali in Messico hanno svolto diverse funzioni: cortigiani di lusso del potere di turno, decorazione statale, voci dissidenti (che vengono chiamate, per istituzionalizzarle, "Coscienze Critiche"), interpreti privilegiati della storia e della società, spettacoli di per sé" (Carlos Monsiváis, Intelectuales mexicanos de fin siglo, in Viento del Sur 8, 1996, p.43).

L'ultimo grande intellettuale di destra in Messico, Octavio Paz, ha assolto fino alle estreme conseguenze l'incarico affidatogli dal Principe. Non ha lesinato le parole per screditare gli zapatisti e coloro che avevano dimostrato simpatia per la loro causa (attenzione: non per le loro forme di lotta). Una delle migliori dimostrazioni del Paz al servizio del Principe si trova nei suoi scritti e nelle sue dichiarazioni degli inizi del 1994. Qui Octavio Paz definiva, non l'EZLN, ma gli argomenti che avrebbero dovuto approfondire i suoi "soldati" intellettuali: maoismo, messianismo, fondamentalismo e alcuni altri "ismi" che adesso mi sfuggono. Nei confronti degli intellettuali progressisti, Paz non ha lesinato le accuse: loro erano i responsabili del "clima di violenza" che aveva segnato l'anno 1994 (e anche tutti gli altri anni del Messico moderno, ma la destra intellettuale non ha mai brillato per la sua memoria storica), in sostanza, dell'assassinio del candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica Colosio. Anni dopo, prima di morire, Paz avrebbe rettificato, segnalando che il sistema era in crisi e che, anche senza la ribellione zapatista, quei fatti sarebbero ugualmente accaduti (v. Braulio Peralta op. cit.).

Nessuno degli eredi attuali di Paz possiede la sua statura, anche se non manca loro l'ambizione di prendere il suo posto. Non come intellettuale, dato che a questi mancano intelligenza e prestigio, ma per il posto privilegiato che occupava accanto al Principe. Tuttavia, fanno la sua stessa lotta. E continuano nel suo impegno di confezionare allo zapatismo una storia che faccia loro comodo, non solo per attaccarlo, ma soprattutto per eludere un'analisi critica e una riflessione serie e responsabili.

Ma non è solo la storia dello zapatismo e dei popoli indio che stanno riscrivendo gli intellettuali di destra. Si sta rifacendo l'intera storia del Messico, per dimostrare che siamo ormai nel migliore dei Messichi possibili. E così i nani della destra intellettuale rivisitano il passato e ci vendono una nuova immagine di Porfirio Díaz, di Santa Ana, di Calleja, di Cárdenas.

E questa ansia di rimodellare la storia non è esclusiva del Messico. Sullo schermo della globalizzazione ci viene già proposta una nuova versione in cui l'Olocausto nazista contro gli ebrei è una specie di Disneyland selettiva e Adolf Hitler una specie di simpatico Mickey Mouse ariano, e, in tempi più recenti, le guerre del Golfo e del Kossovo sono state "umanitarie". Nel futuro passato che ci prepara la destra intellettuale, la globalizzazione è il "deus ex machina" che lavora sul mondo per preparare il proprio stesso avvento.

Ma quelle immagini grigie che ci mostra adesso il megaschermo della globalizzazione, di che cosa annunciano l'arrivo?

6 - IL LIBERALE FASCISTA

Io dico che questo film lo abbiamo già visto, e se non ce ne ricordiamo è perché la storia non è un articolo di richiamo nel mercato globalizzato. Quei grigi possono significare qualcosa: la ricomparsa del fascismo.

Paranoia? Umberto Eco, in un testo intitolato Il fascismo eterno (op. cit.), fornisce alcune chiavi per capire che il fascismo è sempre latente nella società moderna, e che sebbene appaia poco probabile il ripetersi dei campi di sterminio nazisti, in ogni angolo del pianeta sta in agguato quello che Eco chiama "Ur Fascismo". Dopo averci fatto presente che il fascismo era un totalitarismo "fuzzy", cioè disperso, diffuso in tutta la società, ci propone alcune delle sue caratteristiche: rifiuto dei progressi del sapere, irrazionalismo, la cultura viene sospettata di fomentare atteggiamenti critici, il disaccordo con ciò che è egemone è un tradimento, paura della differenza e razzismo, aumento della frustrazione individuale o sociale, xenofobia, i nemici sono contemporaneamente troppo forti e troppo deboli, la vita è una guerra permanente, elitarismo aristocratico, sacrificio individuale per il bene della causa, maschilismo, populismo qualitativo diffuso attraverso la televisione, "neo lingua" (di lessico povero e sintassi elementare).

Tutte queste caratteristiche si possono ritrovare nei valori difesi e diffusi dai media e dagli intellettuali di destra nell'era visuale, nell'era della globalizzazione frammentata. Oggi, quasi come ieri, non si sta forse utilizzando la stanchezza democratica, la nausea di fronte al nulla, lo sconcerto davanti al disordine come avallo di una nuova situazione storica eccezionale che richiede un nuovo autoritarismo persuasivo, che unifichi la cittadinanza in clienti e consumatori di un sistema, di un mercato, di una repressione centralizzata? (M. Vázquez Montalbán op. cit. pp. 70-71).

Guardate il megaschermo: tutti quei grigi sono la risposta al disordine, quello che è necessario per affrontare coloro che si rifiutano di godere del mondo virtuale della globalizzazione e fanno resistenza. E tuttavia sembra che il numero dei resistenti cresca. Uno dei nani messicani che aspirano a occupare la poltrona vuota di Octavio Paz constatava, atterrito, che in un'inchiesta dell'Instituto de Investigaciones Sociales della UNAM (Università Autonoma di Città del Messico), nel 1994, il 29% dei messicani intervistati rispondeva che non si deve ubbidire alle leggi se sono ingiuste. Nel novembre del '99, sulla rivista Educación 2001 era il 49% che alla domanda "Può il popolo disubbidire alle leggi se gli sembra che siano ingiuste?" rispondeva "sì". Dopo aver riconosciuto che è necessario risolvere i problemi di crescita economica, di istruzione, occupazione e salute, concludeva: tutte queste cose si possono raggiungere solo se la società si regge su un terreno di base, quello della sicurezza pubblica e dell'osservanza delle leggi. In Messico quel terreno è pieno di buchi e tende a peggiorare. (Héctor Aguilar Camín, "Leyes y crimenes", in Esquina, Proceso, 23 aprile 2000). Il ragionamento è sintomatico: a mancanza di legittimità e consenso, poliziotti.

Il clamore della destra intellettuale che chiede "legge e ordine" non è esclusivo del Messico. In Francia il fascista Le Pen si è preparato per rispondere alla chiamata. In Austria il neonazista Haider è già pronto, proprio come il franchista Aznar nello Stato Spagnolo. In Italia Berlusconi (alias il "Duce Multimediale") e Gianfranco Fini si preparano per quando verrà il momento.

L'Europa affacciata di nuovo al balcone del fascismo? Suona duro... e lontano. Ma ci sono le immagini del megaschermo. Quegli skinheads i cui manganelli spuntano da dietro quell'angolo, sono in Germania, in Inghilterra, in Olanda? "Sono gruppi minoritari e sotto controllo" ci tranquillizza l'audio del megaschermo. A quanto pare il fascismo rinnovato non ha sempre la testa rasata né si adorna il corpo con svastiche tatuate, ma anche così non cessa di essere una destra sinistra.

Se dico "destra sinistra" vi sembrerà che stia giocando con le parole e che sto solo ricorrendo di nuovo a ossimoro, invece tento di richiamare la vostra attenzione su qualcosa. Dopo la caduta del muro di Berlino, lo spettro politico europeo si è, nella sua maggioranza, avventato verso il centro. Questo è evidente nella sinistra europea tradizionale, ma è successo anche ai partiti di destra (vedi: Emiliano Fruta, "La nueva derecha europea", e Hernán R. Moheno, "Más allá de la vieja izquierda y la nueva derecha". In Urbi et Orbi, Aprile 2000). Con una maschera moderna, la destra fascista comincia a conquistare spazi che ormai sorpassano di molto quelli dei rapporti polizieschi nei media. E' stato possibile perché si sono sforzati di costruirsi una nuova immagine, lontana dal passato violento e autoritario.

Anche perché si sono appropriati della teologia neoliberista con una facilità stupefacente (un motivo ci sarà), e perché nelle loro campagne elettorali hanno molto insistito sui temi della sicurezza pubblica e dell'occupazione (mettendo in guardia contro la "minaccia" degli immigrati). Qualche differenza con le proposte della socialdemocrazia o della sinistra tradizionale?

Dietro la "terza via" europea sta in agguato il fascismo, e anche dietro alla sinistra che non si definisce (in teoria e in pratica) contro il neoliberismo. Invece la destra può rivestirsi di stracci di sinistra. In Messico, nel recentedibattito televisivo fra i sei candidati alla presidenza della Repubblica, il candidato che ha ottenuto il beneplacito della destra intellettuale è stato Gilberto Rincón Gallardo, del Partido Democracia Social, di sinistra apparente. Guardacaso la televisione non ha mostrato che alcuni militanti e candidati del PDS in Chiapas sono capi di vari gruppi paramilitari, responsabili, tra l'altro, del massacro di Acteal.

Che la destra fascista e la nuova destra intellettuale siano pronte per mostrare le proprie "capacità" ai signori del denaro non sorprende. Ciò che sconcerta è che qualche volta sono la socialdemocrazia o la sinistra istituzionale che preparano loro la strada.

Se nello Stato Spagnolo Felipe González (quel politico tanto applaudito dalla destra intellettuale) lavorò per il trionfo del Partido Popular di José Maria Aznar, in Italia l'autostrada lungo la quale la destra si avvia verso il potere si chiama Massimo D'Alema. Prima di dimettersi, D'Alema ha fatto tutto il necessario per far naufragare la sinistra. D'Alema e i suoi hanno finanziato con il denaro di tutti l'istruzione religiosa e hanno preparato la privatizzazione di quella pubblica, hanno partecipato pienamente all'avventura NATO contro la Yugoslavia e all'occupazione virtuale dell'Albania, hanno privatizzato quel che hanno potuto, hanno attentato alle pensioni, hanno represso gli immigrati, si sono sottomessi a Washington, hanno "riciclato" i corrotti e lo stesso Bettino Craxi, sfilando nella sua residenza d'esilio, in fuga dalla giustizia, per chiedergli aiuto, hanno fatto una legge sui carabinieri ispirata dal comando golpista degli stessi... (Guillermo Almeyra, "La sinistra della destra", La Jornada, 23 aprile 2000). Risultato? Buona parte dell'elettorato di sinistra si è astenuta dal voto.

Nella complicata geometria politica europea, la cosiddetta "terza via" non solo è risultata letale per la sinistra, ma è stata anche la rampa di lancio del neofascismo.

Forse sto esagerando, ma la memoria è una strana facoltà. Quanto più è acuto e isolato è lo stimolo che riceve, più ricorda; quanto più è vasto lo stimolo, minore è l'intensità del ricordo. (John Berger, Op. cit.) E sospetto che questa valanga di immagini grigie sullo schermo serve a farci ricordare con minore intensità, con pigrizia, con voglia di dimenticare.

E se i libri non mentono, fu il fascismo italiano a risultare attraente per molti leader liberali europei, perché consideravano che stesse portando a termine interessanti riforme sociali e poteva essere un'alternativa alla "minaccia comunista" (Vedi U. Eco, op. cit.).

Nell'agosto del 1997, Fausto Bertinotti (segretario di Rifondazione Comunista) scriveva in una lettera all'EZLN: Si è aperta in Europa una vera crisi di civiltà. Si potrebbero, purtroppo, raccontare centinaia e migliaia di episodi di barbarie quotidiana, di violenza gratuita, di aggressione alle persone, al corpo, di traffico di persone, di corpi, di organi, senza senso alcuno. E sopra tutto questo una spessa cappa di indifferenza, come se la vita avesse perso di senso. Le potrei raccontare cose che accadono nella periferia urbana, realtà e metafora della tragedia umana in cui si è trasformato questo nuovo ciclo dello sviluppo capitalista.

Di fronte a questa vita senza senso, il liberale fascista presenta la sua faccia gentile e, facendo leva sulle proprie virtù, argomenta in favore del ricorso alla violenza legalizzata, istituzionale.

L'orizzonte annuncia tempesta, e la destra intellettuale cerca di tranquillizzarci presentandola come un piovasco senza importanza. Tutto per assicurarsi il pane, il sale... e il posto accanto al Principe. Proteggetelo! Non importa che la sua camicia sia grigia e nel suo caldo seno si incubi l'uovo del serpente.

"L'uovo del serpente". Se non ricordo male è il titolo di un film di Bergman che descrive l'ambiente in cui ebbe gestazione il fascismo. E noi che cosa facciamo? Restiamo seduti fino alla fine del film? Sì? No? Un momento! Guardate gli altri spettatori! Molti si sono alzati e fanno capannelli! Il mormorio cresce! Alcuno lanciano oggetti contro lo schermo e fischiano! E guardate quegli altri! Invece di rivolgersi allo schermo guardano in alto, come se cercassero quello che proietta il film! Sembra che lo abbiano trovato, perché indicano con insistenza un angolo lassù! Chi sono queste persone e con che diritto interrompono la proiezione? Uno di loro innalza un cartello che recita: Prendiamo quindi noi, cittadini comuni, la parola e l'iniziativa. Con la stessa veemenza e la stessa forza con cui rivendichiamo i nostri diritti, rivendichiamo anche il dovere dei nostri doveri. (José Saramago. Discorsi di Stoccolma.) Il dovere dei nostri doveri?

Che qualcuno ci spieghi perché non capiamo nulla! Silenzio! Qualcuno prende la parola...

7 - LA SCETTICA SPERANZA

Gli intellettuali progressisti. Quelli della scettica speranza. Il sociologo francese Alain Touraine ne propone una classificazione (Comment sortir du libéralisme? Ed. Fayard, Parigi, 1999): la più classica è quella dell'intellettuale denunciante, ove tutta l'attenzione si concentra sulla critica del sistema dominante. Il secondo tipo di intellettuale si identifica con quella lotta o quella forza di opposizione e si trasforma in intellettuale organico. Il terzo crede nell'esistenza, nella coscienza e nell'efficacia degli attori sociali, e al tempo stesso ne conosce i limiti. Il quarto tipo comprende gli utopisti che si identificano con le nuove tendenze culturali, della società o dell'esistenza individuale. Tutti loro (e tutte loro, perché essere intellettuali non è un privilegio maschile) impegnano i propri sforzi nel comprendere criticamente la società, la sua storia e il suo presente, e tentano di decifrare l'incognita del suo futuro.

Non è per niente facile il compito degli intellettuali progressisti. Nella loro funzione intellettuale si sono resi conto di come vanno le cose e, noblesse oblige, devono svelarlo, esibirlo, denunciarlo, comunicarlo. Ma per farlo devono affrontare la teologia neoliberista della destra intellettuale, e dietro di essa ci sono i media, le banche, le grandi imprese, gli stati (o quel che resta di essi), i governi, gli eserciti, le polizie.

E per di più devono farlo nell'era visuale. Qui si trovano francamente in svantaggio, dato che occorre tener conto delle grandi difficoltà che implica l'affrontare il potere dell'immagine con la sola risorsa della parola. Ma il loro scetticismo nei confronti dell'evidente gli ha già permesso di scoprire la trappola. E con lo stesso scetticismo armano le loro analisi critiche per smontare concettualmente la macchina delle bellezze virtuali e delle miserie reali. C'è speranza?

Fare della parola un bisturi e un megafono è già una sfida straordinaria. E non solo perché in quest'epoca la regina è l'immagine. Anche perché il dispotismo dell'era visuale confina la parola nei bordelli e nei negozi di trucchi e scherzi. Anche così, possiamo solo confessare la nostra confusione e la nostra impotenza, la nostra rabbia e le nostre opinioni, con le parole. Con le parole nominiamo anche le nostre perdite e la nostra resistenza, perché non abbiamo altre risorse, perché gli uomini sono indefettibilmente aperti alla parola e perché poco a poco sono queste a modellare il nostro giudizio. Il nostro giudizio, sempre temuto da coloro che detengono il potere, si modella lentamente, come l'alveo di un fiume, per mezzo di correnti di parole. Ma le parole producono correnti solo quando risultano profondamente credibili (John Berger, op. cit.).

Credibilità. Cosa di cui è carente la destra intellettuale e che, fortunatamente, abbonda fra gli intellettuali progressisti. Le loro parole hanno prodotto, e producono, in molti prima la sorpresa, poi l'inquietudine. Perché questa inquietudine non venga schiacciata dal conformismo prescritto dall'era visuale, occorrono altre cose, che sfuggono al compito dell'intellettuale.

Ma anche quando la parola si è fatta corrente impetuosa, la funzione intellettuale non ha termine. I movimenti sociali di resistenza o di protesta contro il potere (in questo caso contro la globalizzazione e il neoliberismo) devono percorrere ancora un lungo cammino, non diciamo per ottenere i loro fini, ma almeno per consolidarsi come alternativa organizzativa per altri. Alla fine bisogna riconoscere la particolare responsabilità degli intellettuali. Dipende da loro, più che da ogni altra categoria, che la protesta vada sprecata in denuncia senza prospettive o, al contrario, conduca alla formazione di nuovi attori sociali e, indirettamente, a nuove politiche economiche e sociali (A. Touraine, op. cit.).

L'intellettuale progressista si sta dibattendo continuamente fra Narciso e Prometeo. A volte l'immagine nello specchio lo afferra e comincia il suo inesorabile percorso di mutazione in un nuovo impiegato del mega mercato neoliberista. Ma a volte rompe lo specchio e scopre non solo la realtà che sta dietro al riflesso, ma anche altri che non sono come lui, e che però come lui hanno rotto i loro rispettivi specchi.

La trasformazione di una realtà non è compito di un solo attore, per forte, intelligente, creativo e visionario che sia. Né i soli attori politici e sociali, né i soli intellettuali possono portare a buon fine questa trasformazione. E' un lavoro collettivo. E non solo nell'azione, anche nelle analisi di questa realtà, e nelle decisioni riguardo a direzioni e priorità del movimento di trasformazione.

Raccontano che Michelangelo Buonarroti abbia realizzato il suo David con seri limiti materiali. Il pezzo di marmo su cui lavorò Michelangelo era già stato lavorato da qualcun altro e aveva già dei fori; il talento dello scultore consistette nel costruire una figura che si adattasse a quei limiti invalicabili e ristretti. Di qui la postura, l'inclinazione dell'opera compiuta (Pablo Fernández Christlieb. La afectividad colectiva. Ed. Taurus).

Allo stesso modo, il mondo che vogliamo trasformare è stato lavorato dalla storia è ha molte perforazioni. Dobbiamo trovare il talento necessario per trasformarlo, con quei limiti, e farne una figura semplice e schietta: un mondo nuovo.

Salute, e non dimenticate che un'idea è anche uno scalpello.

Dalle montagne del Sudest messicano.

Subcomandante Insurgente Marcos

Messico, aprile 2000

P.S.: Qualcuno ha un martello a portata di mano?

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