Il manifesto - 30 Giugno 2000
Messico stavolta è sul serio
GIANNI PROIETTIS - INVIATO A CITTÀ DEL MESSICO
Il 2 luglio 2000 sarà, comunque vada, una data storica per il Messico. In quelle che saranno le elezioni più competitive del secolo - a parte quelle del 1911 che posero fine alla dittatura di Porfirio Diaz e aprirono la strada alla Revolución con la erre maiuscola - si voterà per rinnovare il presidente della repubblica, 500 deputati e 128 senatori, oltre al sindaco-governatore della capitale federale.
Pubblicizzate ampiamente come "le elezioni più pulite nella storia del paese", quelle di domenica potrebbero segnare la fine di settant'anni di egemonia per il Partido Revolucionario Institucional, il più longevo al mondo dei partiti al potere. O aprire, quanto meno, un'epoca di pluralismo ed equilibrio dei poteri del tutto nuova in un paese che soggiace da secoli al più rigido assolutismo e che si limitato a sostituire il tlatoani azteco con il viceré spagnolo prima e un presidenzialismo autocratico poi.
Più emozionante di qualsiasi gran premio di formula 1, anche perché ne dipendono le sorti di quasi 100 milioni di persone, la prossima corsa alla presidenza, che vede allineati ben sei concorrenti (ridotti a cinque dopo il ritiro dell'ex-sinistro Porfirio Munoz Ledo, passato alla corte del destro Fox) si apre in un clima surriscaldato da una campagna elettorale - chiusa dai comizi finali di mercoledì - senza esclusione di colpi e in un paese letteralmente devastato dal sessennio della presidenza Zedillo.
Sei anni buttati
Portato inaspettatamente alla presidenza, nel 1994, dal misterioso omicidio del candidato priista Luis Donaldo Colosio, di cui dirigeva la campagna, Ernesto Zedillo, economista neo-liberale allevato a Yale, si beneficiò del "effetto simpatia", che sempre accompagna l'assassinio di un candidato, e del "voto della paura" provocato dall'insurrezione zapatista del Chiapas del primo gennaio di quell'anno.
Il suo slogan "benessere per la famiglia" si rivelò, a meno di un mese dall'insediamento, una tragica ironia: un crollo senza precedenti dell'economia - il valore del dollaro passò, in pochi giorni, da 3 a 8 pesos - dimezzò il potere d'acquisto dei messicani. I suoi debiti politici con l'ala più dura e poderosa del Pri, i cosiddetti dinosauri, i finanziamenti illegali per la sua campagna, provenienti per la maggior parte dall'erario pubblico e dai narco-trafficanti, e la sua ottusa fedeltà a Washington hanno rappresentato una pesante ipoteca sulla sua presidenza.
Sul piano economico, la gestione di Zedillo lascia un paese in ginocchio: milioni di disoccupati, smantellamento dell'apparato produttivo e dell'agricoltura, perdita dell'autosufficienza alimentare - anche grazie al Nafta - l'accordo di libero commercio con Stati uniti e Canada - e, colpo maestro, il Fobaproa, un salvataggio bancario truffaldino costato 100 miliardi di dollari, che verrà pagato da tutti i messicani per i prossimi vent'anni e che non riuscito a salvare un sistema creditizio che vale, nella migliore delle ipotesi, dieci volte meno.
Mentre lo stesso Clinton, dopo i fatti di Seattle, invitava ad ascoltare le ragioni dei dissidenti, il presidente Zedillo ha creato a Davos l'astioso neologismo di "globalifobici" per designare i critici del neo-liberismo e dei suoi effetti devastanti. L'unica pagella buona Zedillo l'ha avuta dal Fmi e dalla Banca mondiale che, riconoscendogli le doti di buon pagatore di debiti, hanno deciso pochi giorni fa di dargli una mancia di 1500 milioni di dollari. E a voler fare affari con lui rimasta solo l'Unione europea che, fiutando un paese in svendita e una possibile porta ai mercati nordamericani, ha già siglato un "Accordo di partenariato economico, coordinamento politico e cooperazione" con il Messico (l'Italia è l'unico dei 15 che non lo ha ancora ratificato a livello parlamentare e, per iniziativa di Rifondazione e Verdi, ha rinviato il voto a dopo il 2).
Sul piano politico, la presidenza Zedillo si distinta per una linea spietatamente repressiva contro ogni forma di dissenso, dagli zapatisti agli studenti, per la militarizzazione delle regioni indigene e una costosissima "guerra di bassa intensità", per il disprezzo degli accordi di San Andrés, firmati nel 1996 con l'Ezln, e per la crescita obiettiva del narco-traffico e della criminalità organizzata. Il suo stigma indelebile rimarrà la strage di Acteal, nel Natale del 1997, in cui 45 indios tzotzil inermi, in maggioranza donne e bambini in preghiera, vennero massacrati da una banda paramilitare con la connivenza delle autorità.
"La sola cosa buona del sessennio del signor Zedillo - dice ironicamente l'ultimo comunicato del subcomandante Marcos - è che sta per finire".
Ma torniamo alle prossime elezioni.
Una triplice opzione
La profezia dello scrittore Carlos Fuentes, che già nel 1994 vedeva la formazione di tre grandi blocchi più o meno equivalenti nell'elettorato messicano, si è definitivamente avverata.
Il Partido de Acción Nacional, fondato nel 1939 come espressione della destra cattolica, è andato consolidandosi e ha guadagnato spazi sempre più importanti a partire dalla presidenza Salinas (1988-1994) che, come si diceva allora, aveva portato al governo il programma economico del Pan. Neo-liberista e filo-americano ad oltranza, il Pan si chiamerebbe volentieri Democrazia cristiana, se la costituzione messicana non proibisse esplicitamente l'intrusione della religione in politica. (La normativa anticlericale derivata dalla Rivoluzione, apparentemente contraddittoria in un paese cattolicissimo ma giustificata dal ruolo storico di dominazione della Chiesa, ha cominciato a sgretolarsi solo nel 1992, quando l'attivismo spinto di papa Woytjla ha ottenuto il riconoscimento diplomatico del Vaticano e la concessione del diritto di voto al clero).
Particolarmente forte nel nord del paese, dove una nuova, spregiudicata classe imprenditoriale ormai stanca del vecchiume e dell'inefficienza dell'ancien régime, il Pan, che ha saputo approfittare delle simpatie e della complicità di Carlos Salinas, ha caratterizzato le sue amministrazioni locali per una politica rigidamente antiabortista, per un chiuso bigottismo - al punto di "rivestire" i cartelloni che pubblicizzavano una marca di reggiseni - e per la caccia agli omosessuali.
Il suo attuale candidato alla presidenza, Vicente Fox, considerato in pole position da quasi tutti i sondaggi con circa il 40% delle preferenze, è un industriale, ex-gerente della Coca Cola, il cui fascino principale risiede nel linguaggio da osteria, negli stivali texani e nella fibbia del cinturone con su scritto Fox. Un eroe populista che, secondo la scrittrice Elena Poniatowska, coscienza critica della nazione, rappresenterebbe "un ritorno al Medioevo".
Ma la sua crescita, che sembrava inarrestabile fino a poco tempo fa, ha subito una brusca battuta d'arresto grazie al suo smaccato opportunismo - ai limiti del puttanesimo - e alle numerose contraddizioni e menzogne in cui è inciampato nel corso della campagna e, soprattutto, a una serie di scandali personali e familiari cui non sono estranei i servizi di informazione del governo. Oltre all'esistenza di un "fratello scomodo", in odore di truffatore, e al fatto che alcune industrie familiari hanno partecipato al saccheggio del Fobaproa, le recenti rivelazioni di finanziamenti illegali provenienti dall'estero - attraverso complicate triangolazioni con imprese fantasma - ne hanno ridimensionato la popolarità.
La seconda opzione per l'elettore messicano si chiama Francisco Labastida, delfino del presidente Zedillo e candidato del "nuovo" Pri, difficilissimo da distinguere dal vecchio. Il Partido Revolucionario Institucional, che ha cambiato già due volte di nome dal 1929, ha da sempre disposto di risorse illimitate per finanziare le sue campagne, di tutto l'apparato statale e della quasi totalità dei mezzi di comunicazione. Il suo uso sapiente di prebende e privilegi, minacce e repressione, per cui lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa coniò la formula di "dittatura perfetta", gli ha permesso di installare alla presidenza, da settant'anni a questa parte, qualunque bipede unto dal regime. E, se ce n'era bisogno, l'arte della frode elettorale, portata dal Pri a livelli eccelsi, dava il colpo finale (come nell'88).
Impresentabile
Ma, con i tempi che corrono, le vittorie del partito-stato stanno diventando sempre più difficili e costose. La maggioranza dei messicani lo ripudia e lo considera, giustamente, responsabile delle drammatiche condizioni in cui versa il paese. Il suo carico di corruzione, inefficienza e criminalità, che arriva alla collusione aperta con il narco-traffico, sommato alla dipendenza servile da Washington e all'uso sempre pi frequente dell'apparato repressivo, lo rendono ormai inviso all'elettorato. E gli stessi americani, a questo punto, lo considerano un socio troppo compromesso e impresentabile.
La candidatura di Francisco Labastida, un personaggio sinistro che stato ministro degli interni nel '98-'99 e il cui dicastero si è segnalato per un aumento della repressione e della guerra di bassa intensità in Chiapas, non è riuscita a prendere quota ed anzi appare in discesa. I sondaggi di venerdì scorso - gli ultimi permessi dalla legislazione elettorale - avevano toccato il nadir del 35% delle preferenze. Il Pri, ovviamente, non rinuncia all'acquisto e alla coercizione del voto, specialmente nelle zone rurali, e le due principali reti televisive fanno a gara nel cercare di tirarlo su.
Il figlio di Lazaro
Last but not least, malgrado i sondaggi d'opinione gli attribuiscano solo il 19% delle preferenze, l'ingegnere Cuauthémoc Cárdenas, che si presenta per la terza volta alle elezioni presidenziali, esprime l'opzione della sinistra, rappresentata dal Partido de la Revolución Democrtica. Figlio di Lazaro Cárdenas, il presidente più amato del '900 messicano che nazionalizzò l'industria petrolifera, tra i fondatori del Prd, che si formò proprio intorno alla sua candidatura. Quando, nel 1988, Cuauhtémoc uscì dal Pri con una piccola fazione che reclamava la democratizzazione del partito-stato, ciò che rimaneva della sinistra, comunisti compresi, aderì alla sua candidatura. Anche allora i polls non gli davano alcuna possibilità. Eppure si produsse il miracolo. All'inizio dello scrutinio, in un conteggio mozzafiato, Cárdenas risultava in testa. Poi, all'improvviso, il contro-miracolo: un incredibile black-out del sistema di computo - ultima risorsa del regime - aprì il passo a un'inversione di tendenza. E vinse Carlos Salinas de Gortari, da allora designato come "l'usurpatore". Cárdenas si trovò di fronte a un'alternativa. Contestare con qualunque mezzo quell'elezione fraudolenta, come gli chiedevano le frange più combattive del vasto fronte che lo sosteneva, rischiando così di portare il paese alla guerra civile; o assumere il ruolo di un'opposizione dura ed efficace al Pri, trasformando il fronte in partito. Scelse la seconda strada, dando vita al Prd. Un partito che, malgrado l'aggressivo assedio da parte del regime costato centinaia di morti in questi dodici anni, non ha smesso di crescere e consolidarsi.
Nelle elezioni parlamentari di medio termine del '97, il Pri ha perso la maggioranza assoluta nella Camera, il Prd è diventato il secondo partito a livello nazionale e Cuauhtémoc Cárdenas si è insediato come sindaco di Città del Messico, il primo eletto con a suffragio popolare (fino allora era personalmente designato dal presidente della repubblica). Ed è improbabile ma non escluso che il miracolo possa ripetersi domenica.
Libertà di voto per gli elettori zapatisti
Campagna drogata. Nessun boicottaggio, ma anche nessuna indicazione
GI. PRO. - INVIATO A CITTÀ DEL MESSICO
Venerdì scorso, mentre le due maggiori reti televisive, Televisa e TvAzteca, trasmettevano gli ultimi sondaggi, soffiando sull'idea di un Cárdenas ormai fuori gioco e due soli contendenti forti, è apparso un comunicato del subcomandante Marcos, in cui si dichiara che gli zapatisti non ostacoleranno le prossime elezioni, come fecero nel 1997, e lasciano piena libertà di voto ai loro simpatizzanti.
Quanto alla campagna attuale , il comunicato afferma: "L'uso indiscriminato di inchieste, molte delle quali realizzate senza alcun rigore scientifico, ha sostituito il voto dei cittadini come elettori. Ormai non importa disputare un'elezione nelle urne, ma vincerla o perderla nei titoli dei giornali e dei notiziari radio e televisivi. La nazione è sostituita dal rating".
Dopo aver ricordato che le elezioni per il rinnovo del parlamento, trascurate dall'opinione pubblica, sono altrettanto se non più importanti di quelle per la presidenza, gli zapatisti si pronunciano per un autentico equilibrio di poteri: "Un legislativo autonomo e indipendente dall'esecutivo è imprescindibile in una democrazia".
"L'attuale processo elettorale non è stato equitativo. Da parte del Pri e del suo candidato si è mobilitato tutto l'apparato governativo. L'acquisto di voti, la coazione, il trasporto forzato, le minacce e il favoritismo di alcuni mezzi di comunicazione sono stati usati per appoggiare l'imposizione del candidato del Pri, Francisco Labastida. Alcune di queste disuguaglianze sono state segnalate opportunamente da osservatori nazionali e internazionali, da Ong, da partiti politici di opposizione e dalla stampa onesta".
Quanto alle preferenze elettorali degli zapatisti, Marcos mette in chiaro: "Dei partiti politici, diciamo che non ci sentiamo rappresentati da nessuno di loro. Non siamo né per il Prd né per il Pan e meno ancora per il Pri. (...) Nella concezione zapatista, la democrazia è qualcosa che si costruisce dal basso e con tutti, compresi quelli che pensano in modo diverso da noi".
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