FZLN - Servizi d'Informazione - Bollettino speciale n. 2

La Jornada, martedì 2 maggio 2000

CHIAPAS: TEMPO DI GUERRA

Luis Hernández Navarro

Un vento nuovo soffia in Chiapas; è il vento della guerra che viene. Non è l'insurrezione indigena del gennaio 1994. Neanche la guerra vergognosa dei paramilitari. Nemmeno la guerra silenziosa mascherata da pace ufficiale dell'Esercito Messicano, che durante gli ultimi anni è avanzata per strade e sentieri svianti. No, ciò che oggi si vive nel sudest messicano non è poco più del solito. Non è solo un restringimento maggiore dell'accerchiamento verso i ribelli. È qualcosa drammaticamente diverso: è l'annuncio dell'avvicinarsi di azioni militari offensive contro le comunità zapatiste.

Per anni il potere ha preparato la sua rivincita. Ha scommesso sulla stanchezza e il logoramento dell'opinione pubblica per vendicarsi. Approfittando dei tempi elettorali, ha esercitato pressioni con la presenza militare nella regione fino convertirla in qualcosa di qualitativamente differente da ciò che era fa un anno. Il calendario politico nazionale gli ha offerto, tra il 2 luglio e il primo di dicembre, un magnifico interregno per aggiustare i conti con i ribelli.

Però, adesso, il potere è diventato nervoso. L'orologio corre. Il triste dibattito di Francisco Labastida ha fatto sì che si accendano i fuochi rossi sulle alture. In Chiapas, la forza del candidato dell'opposizione al governo, Pablo Salazar, cresce giorno a giorno. Nelle zone di influenza zapatista il livello di credibilità è aumentato. L'IFE comunica che si installeranno 122 seggi in più nella zona di conflitto. Per invertire la caduta del candidato ufficiale si richiede di soffocare lo stato dell'opinione a favore del cambiamento. Occorre colpire la scacchiera del gioco. È il momento per rivivere il voto del paura, e non c'è niente di meglio che lo scandalo di una guerra per farlo.

I pretesti per abbellire e giustificare un'offensiva militare si sono seminati nell'opinione pubblica negli ultimi due mesi. Si chiamano nazismo, narcotraffico e ecologia. La macchina di guerra si è messa in cammino. Alla tradizionale presenza dell'Esercito, che ha innalzato fortezze in piena selva, e della Polizia di Sicurezza Pubblica, si è aggiunta un'inusitata attività dei gruppi paramilitari e la siderea apparizione della Polizia Federale Preventiva (PFP).

In un sinistro Congresso Internazionale Nazi, realizzato in Chile poco meno di un mese fa, è apparsa un'organizzazione nazi-zapatista che aveva navigato prima, senza pena né gloria, nei mari del cyber-spazio. Alcuni media si incaricarono di pescare l'aborto e magnificarlo, come se fosse qualcosa di più che una realtà virtuale. Adolfo Hitler e Marcos sono rimasti così affratellati per quando sarà necessario giustificare il suo assassinio.

Mentre che la coltivazione di marijuana fiorisce nelle comunità priiste della selva e il suo consumo si promuove tra i contadini, si pretende di coinvolgere, per un'ennesima volta, gli zapatisti nella produzione di droga, attraverso le dichiarazioni di un narco brasiliano che afferma di aver avuto contatti con componenti dell'EZLN.

Il centro dell'aggressione governativa ha un colore doppiamente verde: quello dell'Esercito e della difesa dell'ambiente. Curiosamente, il sottosegretario agli Affari Forestali della Semarnap è Jorge del Valle, uno dei negoziatori ufficiali nei dialoghi di San Andrés. In nome della difesa degli alberi, della selva e della lotta agli incendi forestali si pretende sgomberare da Montes Azules 32 comunità e trasferire alla regione la PFP che, come si sa, ha dato tanti buoni frutti nell'intervento di polizia alla UNAM. Poco importa che gli autentici incendi forestali fuori controllo della stagione succedano lontano dalla selva, nella Frailesca, Villaflores, Albino Corzo e La Concordia, o che molte delle comunità che si pretende sloggiare siano da anni abitanti di queste terre. L'essenziale per loro, è avere una scusa che giustifichi la escalation militare.

I candidati presidenziali di opposizione hanno davanti a sé un affronto e una responsabilità. In Chiapas è in gioco il futuro della democrazia messicana. Tutti loro sarebbero gravemente danneggiati dalla ripresa delle ostilità.

Nulla di buono ci si può aspettare da Francisco Labastida. Come segretario di Governo si è opposto a una soluzione pacifica del conflitto. I suoi consiglieri di allora, che sempre hanno spinto per una soluzione violenta, sono i suoi consiglieri di oggi. Nessuna speranza, neanche, può aversi in Rincón Gallardo e il suo partito. Al PDS si è rifugiato Eraclio Zepeda con le mani piene di sangue, e lì partecipano alcune delle forze più antizapatiste del paese.

Per il potere è arrivato il momento di promuovere il voto della paura. È tempo di guerra in Chiapas. I candidati di opposizione hanno molto da dire o fare per frenarla.


La Jornada, mercoledì 3 maggio 2000

CHIAPAS: PRIMA RETROSPETTIVA

Carlos Montemayor

Non possiamo permetterci il lusso di considerare che in Chiapas sta succedendo un episodio isolato o fugace della storia regionale del Messico. In Chiapas stanno insieme differenti processi sociali, agrari e culturali che sono connessi con il paese nella sua totalità e soprattutto con la capacità che una parte del Messico ha per non riconoscere i suoi popoli più antichi.

Crediamo di discendere da due grandi fonti culturali e sociali: gli spagnoli e gli indios dei tempi preispanici. Ci si è fatto credere che abbiamo ereditato la gran cultura preispanica e ci siamo appropriati di essa senza impegno alcuno con coloro che sì discendono da questi vecchi popoli. Come in una specie di schizofrenia sociale, abbiamo aperto un grande abisso tra la popolazione indigena attuale e la popolazione indigena preispanica.

Abbiamo applaudito la figura astratta dell'indio del passato e ci vergogniamo dell'indio del presente. Questa deformazione della nostra cultura ha incoraggiato ingiustizie sociali nelle generazioni di cinque secoli. In Chiapas si concentra la storia di questa riluttanza, la vecchia storia del nostro razzismo. Un razzismo che si dissimula nell'esaltare la nostra memoria preispanica come meticciato, però che viene allo scoperto di fronte all'indio reale. Questo è uno dei processi presenti in Chiapas.

Da qui deriva un altro processo che fu una costante durante il periodo coloniale e tra i possidenti e latifondisti messicani del secolo XIX e del secolo XX: la disposizione negativa a riconoscere i diritti agrari dei popoli indigeni. Questo scontro tra i diritti agrari indigeni e l'espansione di gruppi regionali di potere è uno degli aspetti più dolorosi del conflitto. Dagli inizi degli anni '50 del secolo XX, le comunità indigene che si insediarono nel cuore della selva Lacandona, particolarmente nelle Vallate di Las Margaritas, hanno iniziato a sollecitare alle autorità federali la regolarizzazione del loro possesso di terre. Alla fine degli anni '60 il Presidente della Repubblica ha emesso un decreto per regolarizzare questo possesso, stabilire nuove dotazioni e delimitare zone della selva per future comunità e centri di popolazione indigeni.

Tuttavia, nel 1972 un nuovo presidente ha emesso un altro decreto presidenziale mediante il quale si è annullato il precedente e si è creata una grande falsità: la selva Lacandona venne concessa come rivendicazione sociale ai 66 padri di famiglia lacandoni che sopravvivevano in quel momento, che ignoravano ciò che stava succedendo, che ignoravano in che consisteva il decreto. Una compagnia forestale sorta con l'appoggio della Nazionale Finanziaria sottoscrisse un contratto con i presunti nuovi padroni della selva per sfruttare legni pregiati per dieci anni, senza concordare il prezzo fisso né il volume del legno in piedi cubici.

In realtà, si legalizzò la spoliazione delle risorse forestali della selva Lacandona. Inoltre, si convertì immediatamente le comunità indigene che si erano già stabilite lì in invasori di proprietà. A partire da quel momento, gli impresari hanno chiesto al governo e al Esercito che le espellessero; alcune hanno accettato di essere traslocate in diverse zone, però altre hanno resistito e hanno iniziato a lottare.

Pertanto, potremmo dire che nel conflitto in Chiapas, le radici agrarie nascono con il Decreto della Selva Lacandona dell'anno 1972. In quel momento, si creano le condizioni di ingiustizia sociale e di scontro violento che venti anni dopo hanno dato luogo all'EZLN.


La Jornada, giovedì 4 maggio 2000

CHIAPAS, SECONDA RETROSPETTIVA

Carlos Montemayor

Dicevamo che è possibile affermare che nel conflitto in Chiapas le radici agrarie sono nate con il decreto della selva Lacandona dell'anno 1972. In quel momento si sono create le condizioni di ingiustizia sociale e di scontro violenta che 20 anni dopo hanno dato luogo all'EZLN. Le comunità indigene hanno dovuto aspettare 20, 30, 40 anni o più perché le autorità agrarie rispondessero alle loro pratiche. Il ritardo nella risposta a sollecitazioni di ampliamento o di regolarizzazione di terre lo si è definito tecnicamente come "residuo agrario".

Il Chiapas fu lo stato con il maggiore residuo agrario del Messico, però solo di fronte a sollecitazioni di comunità indigene. In solo sei anni, per esempio, dal 1982 al 1988, il governo del generale Absalón Castellanos ha rilasciato 7 mila 646 certificati di inafettabilità ganadera. La rapidità delle autorità agrarie nel proteggere i grandi latifondisti contrasta con i 46 e anche 53 anni che hanno dovuto aspettare varie comunità indigene. Alle famiglie potenti hanno risolto le pratiche in settimane o mesi: ogni anno si sono stesi più di mille certificati. I popoli indigeni hanno dovuto aspettare una generazione per avere risposta, perché date le condizioni di vita della popolazione indigena della campagna chiapaneca, quando le autorità messicane risolvevano affermativamente o negativamente le petizioni delle comunità, coloro che si erano presentati personalmente a sollecitarle erano già sepolti.

Non dobbiamo dimenticare nel conflitto del Chiapas questi antecedenti agrari, benché siano successi più di 25 anni fa. La resistenza di autorità federali e regionali a rispondere alle richieste e petizioni delle comunità indigene è un esempio e un riflesso della resistenza a riconoscere i diritti dei popoli indigeni in tutto il paese. Perciò, potremmo affermare che la disposizione per risolvere il conflitto in Chiapas implicherebbe anche la capacità di risolvere problemi simili in Jalisco, Nayarit, Durango, Chihuahua, Veracruz, Hidalgo, Oaxaca o Guerrero, per parlare di alcune altre regioni del Messico.

Dunque non c'è volontà politica nel governo messicano per risolvere a fondo questi conflitti sociali, però non c'è neanche in molti nuclei della popolazione civile messicana. Al contrario, c'è la volontà di peggiorarli, di renderli più critici. Le risposte che ha dato il governo a conflitti similari durante il secolo XX, per non dire durante la storia del nostro paese, sono state sempre militari e violente.

Perché si parte da questa impostazione sbagliata: credere che la violenza nasce con l'esplosione sociale generalizzata o con la sollevazione contadina.

Siamo abituati a chiamare stabilità e pace sociale la disoccupazione, la denutrizione, l'ingiustizia sociale, l'analfabetismo, l'emarginazione. E contro questa violenza sociale istituzionalizzata non esigiamo cambiamenti. In realtà l'esplosione sociale o le ribellioni contadine armate sono la fase finale di questa violenza sociale anteriore, che esse non originano. Le autorità negano le radici sociali dei conflitti popolari e postulano come causa unica i capi ribelli che cercano di reprimere con la polizia o con l'Esercito. Però sono tanto numerose le radici sociali che le autorità si vedono obbligate a simulare un appoggio allo sviluppo regionale con un'importante uscita nel bilancio preventivo, come accade adesso in Chiapas.

Nel conflitto chiapaneco concorrono molti processi sociali, che se trovassero soluzione significherebbero per la totalità del paese un cambiamento positivo. Se vedessero con maggiore ampiezza le dimensioni sociali, le ramificazioni culturali, agrarie, giuridiche ed educative, i messicani avrebbero la possibilità di avanzare verso una coscienza politica e sociale più piena. Però è necessario spiegare perché le autorità messicane in questo momento non hanno la volontà di risolvere a fondo il conflitto chiapaneco, ma di aggravarlo in termini militari e politici.


Venerdìv 5 maggio 2000

CHIAPAS: TERZA RETROSPETTIVA

Carlos Montemayor

Dicevamo che è necessario spiegare perché le autorità messicane in questo momento non hanno volontà di risolvere a fondo il conflitto chiapaneco, ma di aggravarlo in termini militari e politici. Non è la prima volta che nel secolo XX contadini o gruppi indigeni si sollevano in armi per dire basta a condizioni di ingiustizia sociale, di spoliazione o di emarginazione allarmante come quelle della selva chiapaneca. Non è neanche la prima volta nel secolo XX che le autorità messicane hanno deciso di occultare le cause sociali della ribellione armata e postulare come causa unica i conflitti intercomunitari. Con questa impostazione, le autorità giustificano l'impiego della forza e la repressione, sia in termini polizieschi selettivi, sia in termini militari massicci. Però siccome la causalità sociale è tanto forte, dicevamo, devono simulare l'apertura di progetti di sviluppo con una spesa economica notevole rispetto a quella che avrebbero sostenuto prima delle esplosioni sociali.

La strategia di guerra contro i nuclei armati include progetti di sviluppo: primo, per debilitare la risonanza sociale dei movimenti; secondo, per reclutare forze regionali che siano docili al governo e si contrappongano ai movimenti armati; terzo, per aprire strade asfaltate o di terra battuta con la finalità apparente di rinnovare e modernizzare la infrastruttura di comunicazione regionale, però in verità per facilitare lo spostamento dell'equipaggiamento pesante delle forze militari. Così, con l'aspetto dello sviluppo regionale, si affermano le strategie di guerra e la spesa economica segue un itinerario selezionato in funzione della risposta di docilità o di opposizione. Questo è successo altre volte in Morelos, in Oaxaca, in Guerrero, in Chiapas, in tutto il paese. Quando sono sterminati i nuclei armati, scompaiono anche i progetti di sviluppo regionale.

In Chiapas si ripetono quegli schemi, però aggravati con l'addestramento di gruppi indigeni paramilitari che le autorità oppongono ai simpatizzanti zapatisti. Questi paramilitari hanno fatto sì che, in più di 70 municipi, migliaia di famiglie siano sfollate dai loro luoghi di origine, che migliaia di appezzamenti, raccolti e alloggi siano stati incendiati o saccheggiati, che centinaia di feriti e morti continuino ad aggiungersi giorno dopo giorno all'apparente negoziato del governo messicano. La lacerazione sociale dei gruppi paramilitari ha provocato omicidi collettivi come quello di Acteal. E le forze militari e di polizia cercano armi tra le famiglie delle vittime, ma non tra le famiglie degli assassini. È lo snervamento delle condizioni sociali dei popoli indigeni della zona. È la violenza sociale scatenata dal governo messicano. La violenza che non ha creato l'EZLN, che non scomparirebbe con la sconfitta dell'EZLN.

La nunziatura apostolica e il governo messicano sperarono che Raúl Vera frenasse certe azioni del vescovo Samuel Ruiz: la tendenza della diocesi a denunciare atrocità sociali e militari, i suoi ampi contatti con organizzazioni non governative, con giornalisti e osservatori del Messico e stranieri. Perché bloccare questi canali?

Perché una strategia militare come quella che sta seguendo il governo messicano in Chiapas richiede una segretezza, una discrezionalità assoluta. Quando saranno chiuse tali porte d'informazione potranno aumentare i delitti e gli omicidi dei gruppi paramilitari e dell'accerchiamento militare. Possiamo dire che gli stessi motivi che hanno trasformato Vera in vescovo coadiutore di San Cristóbal de Las Casas sono stati gli stessi motivi che lo hanno trasformato adesso in vescovo di Saltillo.

Un'autentica soluzione a fondo del conflitto in Chiapas implicherebbe uno sforzo ininterrotto che va oltre un sessennio per risolvere aspetti di delimitazione di terre, appoggi allo sviluppo agropastorizio e forestale; cambiamenti nelle politiche sanitarie, nelle politiche relative alle comunicazioni, nelle politiche educative. Questa fondamentale soluzione darebbe beneficio al paese intero e non solo al negoziato apparente che il governo messicano sarebbe disposto ad avere con l'EZLN e adesso, soprattutto, con i gruppi paramilitari.

Quando è apparso l'EPR nel guado di Aguas Blancas, nel 1996, molti mi hanno domandato che interessi stavano dietro questa ribellione. Io conoscevo solo la storia agraria e repressiva che c'era dietro quei movimenti da decenni. Perciò rispondevo con un'altra domanda: Perché dopo la devastazione militare che le autorità messicane hanno autorizzato nello stato del Guerrero dal 1967 al 1974 per eliminare le forze di Lucio Cabañas, perché, domandavo, dopo questa decisione estrema militare non si presero decisioni di trasformazione regionale a livello economico, educativo, di salute, di educazione? Insistevo: che oscuri interessi stanno dietro al mantenimento nell'emarginazione di regioni tanto estese e delicate come la sierra di Atoyac o la Costa Grande? Che interessi potenti animano la decisione militare in Chiapas e si oppongono alla soluzione basilare che trasformerebbe in un modo più giusto, più civile non solo lo stato del Chiapas, ma il paese intero? Solo la politica neoliberale degli ultimi tre presidenti di Messico? Solo le pressioni della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale?

Le radici vanno oltre. Affondano nella corruzione dei potenti del Messico.


La Jornada, sabato 6 maggio 2000

L'ALTRA ELEZIONE

Luis González Souza

Nessuno mette in discussione l'importanza dell'elezione presidenziale del luglio prossimo. Però c'è un'altra elezione ancora più importante, dalla quale addirittura dipende quella. Ci riferiamo alla elezione tra la guerra o la pace, tra un Messico-Acteal o un Messico degno. È l'elezione prioritaria. Prioritaria, perché se finisce di scoppiare la guerra contro gli indigeni del Chiapas, niente conserverà senso per il Messico. La transizione alla democrazia finirebbe di tradursi in una antitransizione al totalitarismo. Se ancora con la guerra aperta si realizzassero elezioni, il vincitore risulterebbe qualcosa come il Presidente del Disastro e i perdenti diventerebbero qualcosa di molto simile a rifugiati.

Per la cittadinanza una guerra totale in Chiapas causerebbe rovine ancora maggiori. La sua credenziale di elettore sarebbe ricordata come un biglietto (benché gratuito) per essere protagonisti, e non solo applaudire, L'inferno, di Dante o I miserabili, di Victor Hugo. Il dibattito sopra il nuovo progetto di nazione sarebbe sostituito dalla autopsia di una nazione senza progetto e senza più dibattiti.

E se si mantenesse qualche confine con gli Stati Uniti, i "falchi" del Pentagono monopolizzerebbero le recriminazioni della società statunitense a causa del disastro messicano. Il proverbiale detto sarebbe invertito: "Poveri Stati Uniti, tanto lontani da Dio e tanto vicini al Messico". O forse darebbe luogo a uno più attuale: "Povero Dio, tanto occupato nel resuscitare il Messico e tanto poco aiutato dagli Stati Uniti".

Non c'è luogo né tempo per ulteriori inganni e ritardi. Se il clan guerrafondaio continua a perseguire la guerra in Chiapas, tutti perderemo. E il problema è che questa guerra continua nella sua escalation. Lo fa in modo silenzioso, quando non lo fa in modo ingannevole. E lo fa in forma tanto accelerata, che è già quasi storia il giro che abbiamo fatto per il Chiapas un paio di settimane fa, insieme con parlamentari, giornalisti e altri cittadini.

Già al ritorno ci siamo resi conto che il mostro poliziesco-militare della PFP sta per prendere nelle sue proprie mani, come lo fece nell'UNAM, la "soluzione?" del conflitto in Chiapas. Allo stesso modo, ci siamo resi conto che l'EPR si propone di riapparire in Chiapas con "propaganda armata" al più presto. E come se si cercasse la provocazione totale, il Messico sarà rappresentato all'UNESCO, olimpo dell'educazione per la pace, dal guerrafondaio Eraclio Zapeda (vedere ne La Jornada di ieri l'articolo di Juan Bañuelos e Oscar Oliva, essi sì grandi poeti, tutti d'un pezzo).

L'obiettivo immediato ormai è quasi ovvio: coronare la guerra antindigena con l'annichilimento immediato dell'EZLN. Ciò, ignorando l'importanza che sia una guerra contro le radici stesse del Messico, una guerra contro la sua riserva di dignità più vecchia e ancora vigente. La stessa che ha portato il vecchio regime priista sull'orlo della sconfitta elettorale.

Subito e per lo stesso motivo, si cerca salvare l'anziano PRI (in effetti, né "nuovo" né "vecchio"). Niente di meglio che approfittare del massacro dello zapatismo per alimentare nuovamente, non più il voto della paura come nel 1994, ma adesso il voto del panico. E per giunta, il voto reazionario: mano durissima e - a richiesta del pubblico! - "Globalizzato" come è il Messico "moderno", le reazioni internazionali sono quelle che più interessano al nostro staff di governo. Però, efficiente com'è, esso prepara già la medicina del caso.

Sul piano strategico, già prepara la benedizione e perfino l'applauso del nuovo Capo Massimo (il generale Streets, invece di Calles). Crollato il fantasma comunista, i geni di Washington fanno già assegnamento sul loro nuovo nemico, adesso triplice: il narcotraffico (di altri), il terrorismo e il nazionalismo (anche di altri). Non meno geniale, la loro controparte messicana già porta avanti l'associazione dell'EZLN con la coltivazione di marijuana, con azioni tipo EPR, con un nazionalismo addirittura "separatista"! E per superare il maestro, l'associazione si estende fino al delitto di ecocidio [delitto contro l'ecosistema] (per prevenirlo, non mancava altro, si utilizzerebbe la Polizia Federale Preventiva).

Sul piano tattico, un altro giro di vite si può vedere nella recente espulsione, pardon, "rifiuto" di Ted Lewis, noto dirigente di Global Exchange, a sua volta organizzazione emblematica della solidarietà internazionale. Tutto, meno "osservatori" nell'assalto fine contro l'EZLN.

Molto meno, se sono stranieri.

Carta bianca. "Per tutto e con tutto", va il candidato dell'anziano PRI. Che faranno gli altri? Voteremo per il futuro del Messico o per il suo incendio guerrafondaio? A cosa servirà l'elezione presidenziale se si perde l'elezione "primaria" ; voteremo lottando oggi stesso per la pace, o rischieremo fino al 2 luglio?


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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