Messico: la guerra interminabile

Claudio Albertani

Assai confusa, la situazione attuale del Messico fa venire alla mente quel detto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa secondo cui occorre che tutto cambi perché tutto rimanga uguale. Vero è che le elezioni presidenziali del 2 luglio scorso hanno dato un fiero colpo al PRI, il Partido Revolucionario Institucional che reclama l'eredità della rivoluzione del 1910 ed ha governato il paese con mano di ferro per quasi un secolo.

Come previsto da numerosi sondaggi, ha vinto il candidato della destra, Vicente Fox, un populista con stivali ed aspetto da farmer texano il quale, nonostante gli alti indici di astensionismo, si è imposto conquistando il consenso dei nuovi ricchi, degli indecisi e di una parte della sinistra moderata. La promessa di accedere all'utilitaria e ad un'improbabile attività imprenditoriale, cavallo di battaglia della campagna di Fox, ha inoltre illuso molti tra i giovani e i poveri metropolitani che, stanchi del PRI, non hanno trovato un'alternativa migliore.

Significa questo la fine dell'antico regime? Non è detto. La rottura del connubio tra presidente, regime corporativo e partito di stato apre un periodo di ricomposizione e di dure lotte dall'esito incerto. In tale contesto, la soluzione del conflitto in Chiapas passa in secondo piano, insieme al destino di venti milioni di indigeni che da secoli attendono giustizia.

I barbari del nord

Molti commentatori hanno applaudito, all'indomani delle elezioni, la transizione alla democrazia, versione messicana. La vittoria di Fox potrebbe tuttavia inserirsi in quel fenomeno, caratteristico degli anni novanta, quando le persistenti crisi economiche, il grave impoverimento delle classi lavoratrici e la bancarotta morale delle classi politiche tradizionali hanno incoraggiato in America Latina la domanda di neocaudillos alla maniera di Alberto Fujimori in Perù o di Carlos Menem in Argentina.

Dotato di una prodigiosa facilità di parola, di un'aggressività popolana e di un'innegabile carisma, Fox è un personaggio più complesso di quanto appare a prima vista. Titolare di un piccolo, ma vigoroso gruppo agro-esportatore, ex direttore generale della Coca-Cola Inc. per il Messico e l'America Centrale, ex governatore del Guanajuato, egli sarà il primo presidente-imprenditore del Messico, un paese dove hanno sempre governato ex militari, avvocati ed economisti.

Sebbene si compiaccia di presentarsi come estraneo al mondo della politica, Fox non è un novizio; al contrario egli ha costruito la propria candidatura nel corso del tempo, e con grande abilità. Vecchio militante del Partido Acción Nacional - la destra storica di matrice antigiacobina - delfino di Manuel Clouthier, il popolare leader del PAN deceduto nel 1989 in circostanze oscure, Fox appartiene alla frazione del suo partito conosciuta come i "barbari del nord", un gruppo che, a poco a poco, ha sostituito la vecchia bandiera del cattolicesimo integralista con la fede neoliberista.

Prendendo le distanze dalla Chiesa, brandendo in maniera decisa l'ideologia del sogno americano e facendo un uso spregiudicato delle tecniche manageriali, questi nuovi dirigenti, perlopiù ex imprenditori di successo con titoli di studio in business administration, hanno dato l'assalto al potere, conquistando in solo dieci anni, dapprima alcuni stati (Bassa California, Guanajuato, Chihuahua, Jalisco, Querétaro, Nuevo León, tutti stati del nord) e, adesso, la presidenza della repubblica.

É legittimo chiedersi quali interessi si celino dietro queste vittorie. Nel caso di Fox, è significativo che tra i suoi più vicini collaboratori, oltre ad alcuni transfughi della sinistra, figuri Dick Morris, il famoso mago dell'immagine, già artefice del trionfo di Fernando de la Rua in Argentina e della rielezione di Clinton negli Usa.

La coalizione che lo sostiene, " Gli amici di Fox ", mantiene legami stretti ed organici con il grande capitale nordamericano e, secondo tutti i pronostici, giocherà un ruolo ben più importante del PAN nei destini del prossimo governo. Ciò è particolarmente dannoso per i popoli indigeni ed ha portato l'analista Carlos Monsivais a denunciare una prossima "cocacolizzazione" della politica.

Non è semplice allarmismo. Le holding del petrolio (Exxon), così come le nuove industrie dell'ingegneria genetica (Pulsar, Novartis, Monsanto) che operano in Messico, non soddisfatte delle numerose privatizzazioni già ottenute dall'ultra neoliberista Zedillo, pretendono adesso di accedere a un controllo totale del territorio nazionale eliminando le ultime difficoltà legali.

L'eredità dell'antico regime

Il passaggio dei poteri avverrà solo il primo di dicembre e, per il momento, Fox si limita a promettere tutto e il suo contrario, nel migliore stile populista. Una cosa è però certa: l'adesione entusiasta del nuovo governante alla politica economica degli ultimi governi priisti, la stessa che negli anni scorsi ha devastato i redditi delle classi lavoratrici.

Sempre prodigo negli attacchi all'antico regime, il futuro presidente si è infatti ben guardato dal mettere in discussione il modello di sviluppo promosso dagli ultimi governi priisti. "L'economia del paese è sana", non si è stancato di ripetere, "dobbiamo solo farla finita con il sistema corporativo e con la corruzione".

E tuttavia il bilancio è pesante. Se è vero che, come già notava due secoli fa il barone di Humboldt, il Messico è sempre stato il paese dei grandi contrasti, delle ricchezze sconcertanti e della povertà indecente, la situazione è notevolmente peggiorata a partire dagli anni ottanta.

Secondo la rivista "Forbes", vi era un solo multimilionario messicano nella lista degli uomini più ricchi del mondo corrispondente all'anno 1987, però nel 1991 ve ne erano già due, e ben quattordici nel 1999.

Le statistiche OCSE informano, allo stesso tempo, che su circa cento milioni di abitanti, solo il 25 per cento si muove nella galassia economica privilegiata chiamata "competitiva", mentre un 50 per cento forma il settore poco modernizzato dell'industria e dei servizi, ed il 25 per cento restante - ovvero circa 25 milioni di anime - vive in una specie di limbo definito "estraneo all'economia di mercato".

Questi gravissimi squilibri si riflettono anche in un vero e proprio spaccamento geografico del paese. Infatti, mentre a nord, nei pressi della frontiera con gli Stati Uniti, il reddito pro capite raggiunge la rispettabile cifra di 7000 dollari all'anno, nel sud e nel sud-est, dove vive buona parte delle popolazioni indigene, non supera i 700 dollari.

Non bisogna però ingannarsi: il preteso benessere del nord è, in parte, un inganno statistico. Esso è artificialmente gonfiato da almeno due fattori : 1) il narcotraffico che produce l'effetto notorio di alzare solo alcuni redditi; e 2) le maquiladoras, industrie di assemblaggio destinate all'esportazione, che godono di tutti i privilegi fiscali ma pagano salari da fame, e negano ai lavoratori i più elementari diritti sindacali. In tali fabbriche, così come nei campi di cotone o di pomodori del Sonora, del Sinaloa e della Bassa California, il salario minimo si aggira sui quattro o cinque dollari al giorno, sufficienti a comprare, diciamo, mezzo chilo di carne e un litro di latte.

A partire da questi dati, l'economista Julio Boltivnik calcola che in Messico vi siano oggi non meno di 75 milioni di poveri, dei quali 45 sono considerati indigenti e sopravvivono con grandi difficoltà nelle regioni indigene o nei ghetti delle grandi metropoli. Difficile credere che Fox mantenga la promessa di trasformarli in altrettanti imprenditori al volante del mitico maggiolino Volkswagen.

Tale è, a grandi linee, il quadro economico, ma le difficoltà non finiscono qui. Sebbene prostrato dalla bruciante sconfitta e da violente lotte intestine, il PRI non è ancora liquidato. É vero che si è rotto un anello - il più importante - della catena presidente-partito-governi locali, però il meccanismo continua a funzionare, almeno in parte, laddove - 16 stati su 23 - il PRI si mantiene al potere.

Inoltre il partito dispone di grandi quantità di denaro illecito provenienti dalla corruzione e dal narcotraffico, vera e propria calamità nazionale che corrode tutte le istituzioni, in particolare quelle destinate a combatterlo. Negli ultimi tre anni sono stati arrestati molti militari ed alcuni generali di stato maggiore; tra essi figurano anche l'ex direttore dell'istituto antidroga, Jesús Gutiérrez Rebollo, e Mario Arturo Acosta Chaparro, uno degli architetti della strategia controinsurrezionale dell'esercito federale, il quale è segnalato dalle organizzazioni umanitarie come responsabile (fra l'altro) del massacro di Aguas Blancas.

In questa situazione, i dinosauri del PRI, ovvero i politici tradizionali spodestati dai tecnocrati di Salinas e di Zedillo, stanno recuperando il controllo del partito, e si preparano a dare battaglia al nuovo governante, sventolando adesso la bandiera - poco credibile - della lotta contro il neoliberismo. Appare evidente che Fox dovrà trattare con loro, così come con i militari, ma non si può dire se questa coabitazione darà luogo a una rifunzionalizzazione dell'antico regime o alla sua morte definitiva.

L'altro Messico

Il Messico del sottosuolo quello dei ghetti urbani, delle campagne e delle Sierras, è un vulcano in costante ebollizione. Da secoli, la geografia della povertà coincide con quella delle regioni indigene e questa, a sua volta, con la mappa delle numerose ribellioni che di tanto in tanto scuotono la vita del paese. La storia messicana è quindi anche la storia, poco conosciuta, della resistenza sorda ma persistente, e sovente armata, dei popoli indigeni e del loro rifiuto di piegarsi ai dettami di una modernizzazione escludente.

La rivoluzione del 1910 conteneva per essi la promessa di portare a buon fine una riforma agraria integrale e diventare cittadini a pieno diritto, conservando, al tempo stesso, le proprie specificità culturali e sociali.

La promessa non è stata mantenuta e, come altrove, gli indigeni sono diventati produttori di manodopera e di alimenti a buon mercato. Più recentemente, la controriforma neoliberista del 1991 ha chiuso per sempre perfino la speranza di accedere a un pezzo di terra.

Oggi, la società messicana appare più che mai spaccata socialmente, economicamente e geograficamente. Essa è lacerata da un razzismo non sempre latente e da conflitti che rischiano di diventare etnici, senza che la classe dominante, e nemmeno buona parte della popolazione urbana, si decida a prenderne atto.

Certo i neozapatisti hanno dato un vigoroso scossone a questa situazione, sensibilizzando, a partire dal primo gennaio 1994, una parte della classe media e, soprattutto, aprendo uno spazio perché gli indigeni possano esprimersi in un ambito nazionale e internazionale. Si è generato in tal modo un importantissimo processo di ricomposizione dei loro movimenti che, fra l'altro, ha dato vita al Congresso Nazionale Indigeno. Questa aggruppamento esiste dal 1996, funziona secondo il modello della rete, ed ha giocato un ruolo importante nella difesa dei diritti collettivi e nella promozione dell'autonomia.

Ancora una volta è da sottolineare la pesante eredità del regime priista. La strategia della militarizzazione e della guerra di bassa intensità, applicata non solo in Chiapas, ma in tutto il Messico indio, lascia un bilancio pesante. Zedillo se ne va con sulla coscienza almeno tre massacri di civili innocenti: Aguas Blancas (Guerrero, 1995), Acteal (Chiapas, 1997), El Bosque (Chiapas, 1998).

Nel caso specifico del conflitto in Chiapas, il governo ha intavolato delle trattative di pace con l'EZLN, sfociate negli accordi di San Andrés su Diritti e Cultura dei Popoli Indigeni (febbraio 1996). Tuttavia ha poi fatto marcia indietro, non presentando proposte al secondo tavolo previsto, quello sulla Democratizzazione dello Stato (giugno 1996) e, soprattutto, non rispettando i patti già presi. Ciò ha forzato l'EZLN ad abbandonare le trattative (settembre 1996), il che ha creato una situazione di tensione permanente.

Da allora, le cose non hanno fatto che peggiorare. L'esercito messicano mantiene nella regione del conflitto tra 40.000 e 70.000 soldati distribuiti in un centinaio di distaccamenti militari che, come provato da numerosissimi rapporti di osservatori indipendenti, e perfino da funzionari dell'ONU, terrorizzano la popolazione commettendo ogni sorta di violazioni ai diritti umani.

E' dilagata anche la piaga dei paramilitari i quali non sono altro che gruppi di assalto clandestini finanziati dal PRI e addestrati dall'esercito federale per combattere "i nemici del governo". Mediante un lavaggio del cervello, persone di origine indigena vengono trasformate in vere e proprie belve sanguinarie disposte a uccidere e massacrare su ordinazione, come nel caso di Acteal dove hanno trovato una morte terribile 45 persone, perlopiù anziani, donne e bambini.

Il bilancio di quasi sette anni di guerra è pesante: si contano almeno 500 morti a cui bisogna aggiungere i 145 deceduti in seguito agli scontri militari dei primi giorni. L'ostilità ed il terrore esercitato contro le comunità non apertamente schierate con il PRI ha creato inoltre il fenomeno dei rifugiati interni - ovvero gruppi umani forzati ad abbandonare il villaggio di origine e a vivere altrove - il cui numero è variabile, ma che ascende a perlomeno 30.000 persone.

Non stupisce, in tale situazione, che gran parte delle comunità indigene abbiano manifestato scarso entusiasmo per i recenti processi elettorali, considerando, forse non a torto, che nessuno dei candidati in lizza rappresentasse i loro interessi. L'astensionismo si è mantenuto molto alto nelle regioni del conflitto, sia il 2 luglio che il 20 di agosto quando si è rinnovato il governo locale.

Dal canto loro gli zapatisti - adesso accusati di mantenere un silenzio ambiguo, dopo che era stata rimproverata loro l'eccessiva loquacità - continuano, pur tra mille difficoltà, a portare avanti la loro rivoluzione pacifica. Una rivoluzione che segue ritmi molto diversi da quelli della società politica, ma che, pur tuttavia, non ha finito di stupire il mondo. Oggi in Chiapas esistono e resistono una quarantina di municipi autonomi sparsi nella regione Selva e Altos che producono, creano istituzioni proprie come cliniche e scuole alternative; stabiliscono rapporti di interscambio culturale ed economico con il mondo esterno attraverso la vendita di caffè organico ed altri prodotti; e creano reti di solidarietà mutua. In questi municipi, nella loro determinazione a continuare un progetto di vita originale e degno di ammirazione, risiede il segreto dell'EZLN.

Per gli indigeni il futuro rimane incerto

Quale sarà la politica di Fox in Chiapas e nel resto del Messico indio? In primo luogo è da sottolineare la sua scarsa comprensione della questione. Una barzelletta lo descrive come il primo presidente americano nato in Messico e, per la verità, egli non sembra avere molta dimestichezza con le culture dei popoli originari.

É vero che, prima delle elezioni, Fox si è incontrato con indigeni vicini agli zapatisti, promettendo loro che il primo dicembre, giorno del suo insediamento, firmerà senza indugio la proposta di legge della Commissione Parlamentare di Pace che formalizza gli Accordi di San Andrés. Questa è stata accettata con riserve dall'EZLN, ma scartata da Zedillo (febbraio 1997) con l'argomento che promuove la balcanizzazione del Messico.

Nella stessa occasione Fox ha anche promesso un graduale ritiro dell'esercito dalle regioni del conflitto, fino alle posizioni precedenti al 1994. Tuttavia dopo alcuni abboccamenti con i militari, egli ha dichiarato esattamente il contrario, subordinando la riduzione delle truppe alla ripresa del dialogo, il che significa, né più né meno, il ritorno alle posizioni di Zedillo.

Del resto, come ha spiegato il sub comandante Marcos in una lunga intervista rilasciata nel novembre 1999 alla Commissione Internazionale per l'Osservazione dei Diritti Umani, l'esercito non se ne vuole andare dal Chiapas anche perché vi ha creato una poderosa rete di interessi che comprende prostituzione, alcol e traffico di droga.

Inoltre, sebbene il nuovo governatore, l'indipendente Pablo Salazar Mendicuchía, manifesti buone intenzioni e sia probabilmente deciso a rompere la struttura locale di complicità con le bande paramilitari, la situazione resta assai delicata.

Molto dipenderà anche dallo scenario internazionale e dai risultati delle elezioni negli Stati Uniti. Se, ad esempio, dovesse vincere Bush, con il quale Fox mantiene legami di mutua simpatia, è possibile che prevalga la linea dura.

Come per tranquillizzare i falchi nordamericani, il neopresidente messicano ha recentemente dichiarato che, se pur continuerà a cercare il dialogo con gli zapatisti, condurrà una guerra senza tregua contro l'Esercito Popolare Rivoluzionario e gli altri gruppi ribelli (ve ne sono almeno una mezza dozzina) il che, ancora una volta, ripete lo schema del vecchio governo.

Infine, due notizie si sommano alle altre gettando una luce sinistra sulla complicità del sistema giudiziario messicano con le strutture regionali di potere. La prima è che lo scorso 28 agosto, gli attivisti Teodoro Cabrera García e Rodolfo Montiel Flores sono stati condannati rispettivamente a 6 e a 10 anni di prigione per aver lottato contro il disboscamento della Sierra di Petatlán, Guerrero. Non importa che Montiel abbia vinto il premio al merito ecologico della Fondazione Goldmann, Stati Uniti; non importa che i due siano riconosciuti da Amnesty International come prigionieri di coscienza, tutto ciò non li ha salvati dalla tortura e neppure dalla condanna. Ugualmente significativo è che Digna Ochoa, del Centro de Derechos Humanos Miguel Agustín Pro Juárez, abbia dovuto lasciare il paese in fretta e furia a causa delle minacce di cui è oggetto. La difesa dei diritti umani è un'attività pericolosa...

In conclusione, gli elementi di ottimismo in questo Messico della "transizione democratica" si riducono alle dichiarazioni contraddittorie di un presidente eletto, ed alla buona volontà di un governatore che avrà, con tutta probabilità, le mani legate. É quindi importantissimo mantenere una forte pressione internazionale sulla prossima amministrazione e, come negli anni scorsi, assicurare un flusso continuo di osservatori la cui presenza ha senza dubbio aiutato a ridurre i danni della guerra. La solidarietà non può in nessun caso diminuire: i popoli indigeni ne hanno più bisogno che mai.


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