La Jornada sabato 16 gennaio 1999

Eduardo Galeano

Sparano su Rigoberta

Guatemala? Centroamerica? Nel centro dell'America, c'è il Kansas. Il Guatemala non figura nella carta geografica dei mezzi di comunicazione di massa, che creano l'opinione pubblica mondiale. Però, oh! miracolo!, una donna guatemalteca, Rigoberta Menchú, sta occupando, in questi ultimi tempi, abbastanza spazio. Non per quello che lei denuncia, e cioè che il paese da cui proviene è vittima del più lungo e feroce massacro del secolo XX nelle Americhe: Rigoberta non è quella che denuncia, bensì la denunciata. Ancora una volta, come è giusto, le vittime si siedono al banco degli accusati

I gas dell'infamia

Dagli Stati Uniti, come se non bastasse tutto ciò che si è fatto finora, si è scatenata questa nuova guerra chimica di intossicazione di massa.

La cosa è iniziata quando un antropologo nordamericano ha consacrato 10 anni della sua vita alla ricerca sulle contraddizioni di Rigoberta e sulla responsabilità della guerriglia nella repressione degli indigeni. "È venuto in Guatemala, a studiarci come se fossimo insetti", commenta lo scrittore Dante Liano: "Nel suo libro cita testimoni e archivi. Che archivi esistono sulla guerra recente? L'Esercito gli ha aperto i suoi archivi?".

Poco tempo fa, il deputato Barrios Klee ha tentato di consultare quegli archivi e gli hanno sparato alla testa. Il vescovo Juan Gerardi, che aveva cercato anche lui di consultarli, è morto con il cranio spaccato a colpi di pietra.

Il New York Times ha dato diffusione mondiale alla nuova ricerca. Il quotidiano ha confermato e pubblicato le conclusioni del antropologo: la testimonianza "Io, Rigoberta Menchú", pubblicato da più di vent'anni, contiene "inesattezze e falsità". Per esempio, il fratello di Rigoberta, Patrocinio, non è stato bruciato vivo: è stato fucilato e gettato in una fossa comune. O ancora: "Lei ha frequentato per tre anni un collegio privato", quasi come se fosse un collegio svizzero , mentre invece si riferisce a una piccola scuola di Chichicastenango.

E sempre in questo stile, altri peli nel latte...

Cortina di fumo

A partire di lì, è scoppiata, con ricaduta internazionale, la polvere. In un attimo, si sono moltiplicate le voci che parlano di scandalo, che chiamano bugiarda Rigoberta e che, a cannonate, tolgono autorità al movimento di resistenza indigeno che ella afferma e simbolizza. Con sospettosa celerità, si sta elevando una cortina di fumo sui 40 anni di tragedia in Guatemala, magicamente ridotti ad una provocazione guerrigliera e a bisticci di famiglia, quelle cose lì: "cose da indios".

Non ha avuto certo la stessa ripercussione la voluminosa e documentata relazione della Chiesa, elaborata dalla commissione che il vescovo Gerardi ha presieduto, e che è stato diffuso l'anno scorso, due giorni prima del suo assassinio. Migliaia di testimonianze, raccolte in tutto il paese, che hanno cercato di andar riunendo i pezzettini della memoria del dolore: 150 mila guatemaltechi morti, 150 mila desaparecidos, un milione di esiliati e rifugiati, 200 mila orfani, 40 mila vedove. Nove su 10 vittime erano civili disarmati, in maggioranza indigeni e in otto casi su 10, la responsabilità era dell'Esercito o delle sue bande paramilitari. La relazione parla della responsabilità diretta, della responsabilità dei burattini pagati. Sull'altra responsabilità, quella dei burattinai paganti, varrebbe proprio la pena che gli Stati Uniti inviassero tutti i loro antropologi, e che The New York Times mobilitasse il suo intero corpo redazionale, per investigare sulla situazione. Però il Pentagono e la Casa Bianca possono pure fischiettare e guardare dall'altra parte: i nordamericani non hanno la più pallida idea di dov'è questo paese, il Guatemala, dal nome pittoresco e difficile da pronunciare.

Il Nobel e lei

La campagna contro Rigoberta è arrivato fino ad Oslo. Ci sono già quelli che esigono che restituisca il Nobel, o che glielo tolgano. Il premio è stato dato e ben dato, ha confermato il Comitato norvegese: "I dettagli presentati non sono essenziali", ha dichiarato il suo portavoce.

Bene allora. Il Nobel della Pace, che Rigoberta vinse nel '92, non solo è stato l'unica commemorazione decente e giusta di 500 anni di ciò che chiamano Scoperta dell'America, ma è pure risultato una buona spolverata per un premio che aveva bisogno di un po' di una pulizia. Il Premio Nobel della Pace stava continuando a caricarsi di molto sudiciume dal 1906, quando lo diedero a Teddy Roosevelt, che ai quattro venti proclamava che la guerra purifica gli uomini e si era sporcato ancor di più, con il trascorrere del tempo, quando è stato dato ad altri capi guerrieri, come, per esempio, Henry Kissinger, che è in debito col mondo per molte morti ed è stato il papà di Pinochet e altri mostriciattoli. Testa in su: il mondo al contrario adesso discute se Rigoberta meritava questo premio, al posto di discutere se questo premio la meritava.

Il paese e lei

Gli indigeni vivono in maggioranza in Guatemala. Però la minoranza dominante li tratta, in dittatura o in democrazia, come l'Africa del Sud trattava i neri nel tempo dell'apartheid. Uno ogni sei guatemaltechi adulti, uno solo vota: gli indios sono buoni per attrarre i turisti, per raccogliere cotone e caffè e per servire da bestie da soma nell'economia nazionale e da tiro a segno per l'Esercito. "Sembri indio", dicono i mandanti, che si credono bianchi, ai figli che si comportano male. Questa "società guatemalteca" ha ricevuto al notizia del Nobel come un secchio d'acqua fredda. "India sfacciata", chiamano Rigoberta, da allora, le voci del dispetto e pure: "india presuntuosa". E adesso: "india bugiarda".

Lei è uscita dal suo posto e ciò offende. Che Rigoberta sia india e donna, vada e passi, lì c'è lei con la sua doppia disgrazia. Però che questa donna india sia risultato ribelle è un'imperdonabile insolenza e che per colmo abbia commesso pure la barbarità di trasformarsi in uno dei simboli universali della dignità umana, questa sfida ai potenti del Guatemala e del mondo, non piace neanche un po'.

Il tempo e lei

Rigoberta viene da una famiglia annientata, da un villaggio bruciato, da una memoria perduta. Lei ha trascorso i primi 20 anni della sua vita chiudendo gli occhi ai morti che le hanno aperto gli occhi. Lo scrittore basco Bernardo Atxaga le ha domandato:

- Come puoi essere così tanto allegra?

- Il tempo - ha risposto -. Da piccoli, ci educano per capire il tempo, che il tempo che non termina mai, benché il percorso per il mondo sia molto corto.

Sta scritto in uno dei libri sacri:

- Che è una persona nel cammino? Tempo.

Rigoberta è figlia del tempo. Come tutti i maya, è stata intessuta coi fili del tempo. Ed ella suole dire:

- Il tempo tesse piano.

Alla lunga, lentamente, il tempo deciderà che ciò che vale la pena di ricordare di tutto questo. Il passo dei giorni e degli anni andrà a separare la paglia dal grano. Forse il tempo dimenticherà che Rigoberta Menchú ha ricevuto un Premio Nobel, però sicuramente il tempo non dimenticherà che lei riceve, ogni giorno, nella sierra indigena del Guatemala e in tanti altri luoghi, un premio molto più importante che tutti i nobel: l'amore degli indignati e l'odio degli indegni.

Quelli che linciano Rigoberta, ignorano che la stanno elogiando. In fondo, come dice bene il vecchio proverbio, sono gli alberi che danno frutti quelli che ricevono il lancio delle pietre.


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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