Revista Proceso n. 1206 del 13.12.1999

Chiapas: due parole

di Pablo Latapí Sarre

"Vengo dal Chiapas. Vengo dalla guerra. Ho tutto per essere sereno, ma perché vengo in Messico e infastidisco il presidente Zedillo?"

Lì, nella solennità del Palazzo di Bellas Artes e trasmessa da Canal 22, la voce indigena e serena di José Saramago - quella dell'uomo libero più che del Premio Nobel - ha denunciato l'ingiustizia che lo Stato messicano sta commettendo contro gli indigeni del Chiapas.

"Essi stanno dando al mondo una lezione veramente straordinaria, con uno stoicismo poco comune in tempi come questo; circondati, affamati, malati, lottando contro tutto e contro tutti; lì rimangono, intatti, integri, interi".

"Bisogna rispettare gli indigeni - ha proseguito - e non credere che mettano a rischio la sicurezza dello Stato messicano. Questo gli sta facendo oggi quello che la Spagna fece ai loro predecessori durante la Conquista; mutatis mutandis, non è lo stesso ma ci si avvicina molto".

E ha lanciato la sfida: "Che cosa è a rischio? Perché la militarizzazione? Perché i paramilitari? Perché li si considera come nemici?"

Si è fatto un gran silenzio. E' stata una testimonianza, una parola.

Questo succedeva il 4 dicembre; due giorni dopo il Ministro degli Interni, Diódoro Carrasco, a San Cristóbal ha evitato di reagire a questa denuncia; ha preferito ripetere che "il governo ha accreditato la sua volontà di dialogo", che "le condizioni poste dall'EZLN per riprenderlo sono state accolte tutte" e che è questo che ha "la responsabilità storica di negoziare".

Ha ricordato l'invito fatto da lui tre mesi fa, invito per cui "si continua ad attendere una risposta".

Questo è stato quanto ha detto, ma di più è stato quello che non ha detto.

Ha omesso che la ragione per cui gli zapatisti hanno sospeso il dialogo è stata l'attitudine di disprezzo dimostrata dai delegati governativi; non ha detto nulla sul mancato adempimento degli Accordi di San Andrés (firmati quasi quattro anni fa); non ha fatto alcun riferimento alle vessazioni contro le comunità indigene né all'impunità con cui continuano ad operare i gruppi paramilitari, né all'occupazione militare dello Stato, questioni denunciate chiaramente da Mary Robincon una settimana prima.

Questa è un'altra parola.

Bisogna chiedersi quale delle due parole merita credibilità, quale si accetta e quale si rifiuta e perché.

A quasi sei anni dall'inizio del conflitto chiapaneco e di fronte alla certezza che rimarrà come uno dei grandi insuccessi del governo attuale, la credibilità della parola governativa confrontata con quella di molte altre che le sono contrarie, diventa una questione politica fondamentale sia per il bilancio del governo uscente che per i piani di quelli che seguiranno.

Ci sono, sicuramente, argomentazioni che sono intrinseche al conflitto e che dipendono ogni volta da visioni più ampie sul posto degli indigeni nel progetto della nazione, i limiti del pluralismo culturale del paese, i contenuti degli Accordi di San Andrés e l'impugnazione governativa della proposta di riforma costituzionale della Cocopa; ci sono anche analisi dei probabili motivi per cui il presidente Zedillo ha rifiutato quanto concordato.

Le risorse petrolifere e idroelettriche del Chiapas, i giacimenti di uranio e quello che resta dei suoi legnami preziosi, tutti oggetti dell'avidità degli investitori nazionali e internazionali; dall'ottica governativa il riconoscimento dei diritti indigeni ostacolerebbe i piani di sfruttamento di questa zona; ma oltre a questi argomenti c'è nelle testimonianze sul Chiapas un elemento di credibilità che dipende dalla qualità personale di ogni testimone.

Ed è un compito politico e umano chiarire a quali parole crediamo e perché.

Probabilmente la credibilità di una testimonianza si dirime in uno stato metalogico della nostra coscienza.

Non è che non verifichiamo se quanto si affermi corrisponda a quello che sappiamo da altre fonti degne di fiducia, ma percepiamo la sua qualità morale, senza sillogismi né ragionamenti, attraverso un'intuizione diretta del suo modo di essere, lo osserviamo e ascoltiamo, calibriamo la sua veridicità, ci avviciniamo alle zone mai veramente accessibili della sua integrità. Quanto il testimone ci convince stabiliamo persino un ponte di comunicazione e di empatia; gli uomini e le donne veridici ci sono vicini, dagli imbroglioni ci allontaniamo.

Non pretendo di costruire una teoria generale della credibilità umana, dirò solo perché credo a Saramago, perché la sua testimonianza mi arriva e mi convince, e lascio al lettore dedurre perché non credo alle parole del ministro degli Interni (o in quelle di qualunque altro funzionario che ripeta le versioni governative, poiché non ho interesse nel personalizzare le mie argomentazioni in nessuno di essi).

Credo a Saramago per due ragioni (che non sono ragioni, ma intuizioni della realtà indefinibile della sua persona, ma che in qualche modo bisogna identificare e designare): la sua libertà e il suo impegno. Nella misura in cui conosco la sua vita e i suoi testi arrivo alla certezza che è un uomo libero, che non afferma quello che afferma perché lo pagano, né perché appartiene a un sistema che bisogna difendere, e credo che il fatto che venga in Messico e parli del Chiapas non abbia altri interessi.

Comprovo inoltre che questa libertà si sdoppia in un'altra facciata che si chiama valore, come anche si sdoppia in ciò che soliamo chiamare onestà e integrità, perché è libero solo chi ha la coscienza pulita non solo dalle colpe (in misura umanamente possibile), ma da interessi egoisti (sempre nella misura umanamente possibile).

Certamente Saramago è protetto dal suo premio Nobel, ma la prima volta che venne in Messico e in Chiapas non aveva ancora ricevuto questo premio; non bisogna dimenticare che la sua visita dell'anno scorso coincise con la paranoica campagna contro gli stranieri che andavano in Chiapas, organizzata e favorita dall'allora ministro Labastida.

Credo a Saramago anche perché è un uomo impegnato con i più poveri e senza protezione, lo dimostra in Chiapas come l'ha dimostrato a Timor o con i Senza Terra in Brasile. Impegno e solidarietà - e persino compassione - sono probabilmente altre dimensioni con cui si traveste la stessa libertà interiore di cui ho parlato.

Non ho alcuna ragione per dubitare che qualcuna di queste qualità le abbiano anche i funzionari che affermano il contrario sul Chiapas, solo che i loro comportamenti prepotenti, tortuosi e continuamente dolosi mi impediscono di avere un'intuizione simile di queste qualità nelle loro persone. Il loro carattere di "uomini d'uso" del sistema che servono e che li paga per i loro servizi tende una spessa nebbia sulle loro probabili virtù personali e mi impedisce di concedergli credibilità.

Perché il ministro degli Interni non dice quello che tutti sappiamo?

Perché pretende che dimentichiamo che è il mancato adempimento degli Accordi di San Andrés da parte del governo ad aver reso impossibile il dialogo?

Perché si impegna nel lasciare fuori dalle sue offerte quelle condizioni che sono veramente quelle fondamentali?

Abbiamo memoria.

E' impossibile dimenticare che il governo del presidente Zedillo negoziò con astuzia, firmò gli Accordi senza l'intenzione di adempierlo, pretese ignorare il Convegno 169 della OIT, giocò con la Cocopa secondo la convenienza di ogni momento e fu ostile con la Conai fino ad obbligarla a scomparire, e che ha stabilito il suo potere sul dominio militare della zona e sull'umiliazione degli indigeni per il delitto di esigere giustizia. Con questo vergognoso curriculum, stilato dai suoi tre predecessori in questi sei anni, l'attuale ministro degli Interni pretende rimproverare l'EZLN di non essere disposto al dialogo, quando è stato lo stesso governo a minare le basi della fiducia; senza saperlo ha accerchiato se stesso e ha chiuso la possibilità di una soluzione che adesso dice di volere.

Non vale adesso riscrivere la storia passata, scommettere su un oblio generoso e presentarsi come immacolati. Forse gli esperti del ministero degli Interni credono che continuando a ripetere falsità questa diventi verità, anche se uno sospetta che lo stesso governo ha analizzato bene e accettato la sua debolezza di fronte all'opinione pubblica nella questione del Chiapas, sa che non ci sarà altra soluzione nei mesi che gli restano e che sta tentando solo di ripulire la sua immagine.

Continueremo quindi a sentire parole divergenti sul Chiapas, ancor più con la partenza delle campagne elettorali, sarà parte della nostra responsabilità etica decidere a quali credere.


(tradotto da "si.ro" si.ro@iol.it Associazione Ya Basta!Per la dignità dei popoli e contro il neoliberismo - Lombardia)



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