INTERVISTA A MARCOS
La Jornada 12 marzo 1999
Subcomandante Marcos: il nostro proposito è la difesa della sovranità
IL MAGGIORE OSTACOLO PER LA CONSULTA È QUELLO ECONOMICO
Hermann Bellinghausen, Selva Lacandona, Chiapas, 11 marzo/II
La principale difficoltà per la realizzazione della consulta nazionale continua ad essere quella economica. Mancano i soldi. Dice il subcomandante Marcos: "Stiamo lanciando appelli continui affinché si sostengano i nostri trasferimenti". E giustifica la pertinenza del processo: "Vogliamo essere parte della nazione come indigeni; che si riconosca la nostra differenza. Ma sembra che vogliamo essere parte di qualcosa che si vuole distruggere. Ma come, andremo ad incorporarci ad una nazione che non esisterà più?".
Per la difesa della sovranità nazionale, difendendo le proprie comunità, bisogna creare l'opportunità. "L'obiettivo della consulta è costruire questa opportunità", afferma Marcos nell'intervista a La Jornada.
La finalità degli investimenti milionari annunciati per il Chiapas, che "non arrivano ai campesinos" è, secondo Marcos, "affinché Rabasa possa dire qualcosa; Labastida possa dire qualche cosa, insomma, per scrivere qualcosa sui giornali". Investimento per "pubblicità".
UNA NAZIONE DA DIFENDERE
L'incontro degli indigeni chiapanechi con la gente che li riceverà sembra soggetto alle regole di un gioco di voci, come i giochi di specchi che al capo ribelle piace tanto citare nei suoi scritti.
"C'è un processo di insegnamento e apprendimento che, creando memoria, sta nella nostra storia. Quando l'EZLN entrò nelle comunità, ci fu questo prendere e dare di insegnamenti ed esperienze che cambiò tutti noi. Crediamo che la consulta sarà così ma a livello nazionale.
"Sarà molto quello che impareranno gli zapatisti dall'incontro con operai, contadini, casalinghe, cuochi, cittadini, pescatori, tassisti, indigeni di altre parti, artisti, intellettuali, che si riuniranno, di tutti i gruppi sociali. Impareremo molto per dare corpo e sostegno a questa proposta che dice che vogliamo un mondo dove ci siano molti mondi. Significa riconoscere che il mondo degli omosessuali è uno e deve avere un suo posto. Il mondo delle lesbiche. E significa l'esistenza come indigeni tra tutti questi mondi di disoccupati, di ragazzi delle bande e di donne lavoratrici. La nostra proposta è dire loro che il loro mondo esiste e merita riconoscimento. Ed ha un posto insieme con noi, non al di sopra.
"La proposta che presenta la consulta è quella del movimento indigeno messicano, non solo dell'EZLN. Quello che è in gioco è la proposta fondamentale dei popoli: c'è una nazione che si deve difendere. Questo nella misura in cui gli Accordi di San Andrés e l'iniziativa della Cocopa sono i più rappresentativi del movimento indigeno nazionale, molto più ampi ed importanti dell'EZLN.
"Vogliamo essere parte della nazione come indigeni e che si riconosca la nostra differenza. Il progetto neoliberista in Messico, con i governi di Salinas, Zedillo e di chi seguirà, se seguirà il PRI, porta tutto alla distruzione. Noi diciamo che dobbiamo sostenere la nazione, conservarla ed aprirla. Ma come è possibile se alla fine ci incorporeremo in una nazione che non esisterà più?
"La proposta di autonomia dei popoli indios è uno dei modi, forse ora il più importante, per difendere la sovranità nazionale", sostiene Marcos.
"Questo a differenza di ciò che dice il governo, che l'autonomia attenta all'unità. Riconoscere la differenza ed organizzarla perché si possa trovare un modo di salvare la sovranità nazionale. Il movimento nazionale indigeno ha messo il dito nella piaga: bisogna difendere il paese.
"Un modo per conservarlo è quello di ricostruirlo come nazione, riconoscendo che esistono diversi. Non più la nazione omogenea che non è mai esistita ma che è quella usata dal potere per giustificare la sua storia e, questo concetto, oggi molto svalutato, della patria".
LA PORTA VERSO ALTRE PORTE
L'oscurità è totale. Se non fosse per la piccola pila che pende dal petto di Marco ed i flash di Pedro Valtierra, sarebbe lo stesso chiudere gli occhi. Non c'è luna e s'intravedono le costellazioni (...). Qualcosa passa nel folto della selva. Il buio e le sue variazioni.
- La pace in Chiapas, significa la pace in Messico?
- La pace in Chiapas apre la porta ad un altro Messico. Bisogna attraversare questa soglia, percorrere questa grande stanza in cui più oltre ci saranno altre porte e finestre. È l'occasione per saldare debiti storici attraverso la via pacifica ed il dialogo. Nel governo scommettono che se li risolveranno attraverso la via violenta, che vinceranno loro. Anche noi potremmo optare per la guerra", dice il subcomandante Marcos.
"Ma noi diciamo che quello che porta all'altra stanza storica è la pace, ottenuta attraverso il dialogo e costruita in questo modo. Significa aprire spazio ad altre cose, ma non finiscono lì le rivendicazioni indigene e di tutti i settori sociali. Seguiranno molte questioni in sospeso, ma su un altro terreno. La pace ora apre possibilità ai giovani, agli artisti, agli intellettuali. Ai fotografi", aggiunge riferendosi, scherzando, a Pedro, e continua a parlare della porta.
"Aprirà molti spazi che attualmente non si possono toccare, o vengono sfiorati arbitrariamente e parzialmente, perché c'è sempre la questione del Chiapas. Stiamo trascinando un peso che a volte, come in Acteal, diventa impossibile da sopportare. Solo se risolviamo questo possiamo passare alla fase successiva. Se qualcuno è interessato a che si risolva rapidamente, bene, siamo noi. Sappiamo che sull'altra sponda c'è la possibilità di costruire un paese, con altri e con quelli da questa parte".
- La stessa domanda ma al contrario: che succede al Messico se la soluzione in Chiapas sarà violenta?
- Per prima cosa la violenza cancellerebbe tutto uno sforzo sociale. Il governo dovrebbe dire: 'Posso prescindere da te, società civile, non mi importa quello che vuoi né come ti mobiliti, né come presenti le tue rivendicazioni. Qui l'unica ragione è quella della forza e io detengo la forza.' Questo significa totale oscurantismo. Potrebbe cambiare il titolare, ma sarebbe il consolidamento di una dittatura. Ovvero, chiudere le porte a tutti i settori sociali, compresi quelli che oggi approverebbero un'azione violenta, come certi settori di intellettuali di destra. Finirebbero per cadere anch'essi, perché per un regime di questo tipo, oscurantista, persino i sintomi minori di intelligenza sono sovversivi".
IL PREZZO DELLA PACE
Per il governo, la pace sarebbe una sconfitta?
- Se la sua opzione è la guerra, dovrà dire: 'non ho vinto perché non li ho distrutti. Non ho vinto perché non ho sopportato l'oltraggio, ho dovuto riconoscere che le loro richieste erano giuste e ho dovuto soddisfarle'. In questo caso, è una questione di superbia. Dovrebbe riconoscere che si è sbagliato e che tutto quello che è accaduto prima era sbagliato. 70 anni di dominio costruito sulla frode, l'ipocrisia, l'inganno, il crimine. E il governo deve riconoscerlo. 'Oltre a questo mi hanno sfidato nel momento più inopportuno e nel modo più indignante: male armati, mal vestiti, male alimentati, monolingue!'...", esclama Marcos nel suo gioco di voci, ricordando come si descrissero all'inizio i ribelli. E prosegue con la voce di un altro: "...'Il livello più basso di questo paese, la cantina, si è sollevato contro di noi, noi che abbiamo aperto al primo mondo' e non ce lo perdonano. Per questo non vogliono la pace".
- Supponendo che si imponga la pace, quale soluzione onorevole ci sarebbe per le forze armate?
- È una nuova funzione da studiare, perché se le condizioni che generarono un movimento armato finiscono, il senso di questa sollevazione sparisce. O il movimento si atrofizza o si trasforma verso nuove condizioni politiche.
"Le forze armate, tanto dell'Esercito Zapatista come dell'Esercito federale, dovranno adattarsi alla nuova situazione e ricostruirsi come un diverso protagonista, perché le precedenti ragioni di essere sarebbero finite".
MESSICANI DEL MONDO
Quando si parla di zapatismo, è inevitabile arrivare all'aspetto internazionale. Il conflitto del Chiapas, "che solo Labastida vede in quattro municipi", è il tema messicano di maggior interesse mondiale. Di questo parla Marcos.
"La consulta internazionale ha due obiettivi. Uno sono i messicani all'estero. Abbiamo scoperto l'esistenza di molti messicani in altri paesi, che lavorano, studiano, vivono, molti di loro nascondendosi nell'immigrazione negli Stati Uniti. Inoltre, che è gente interessata, preoccupata di quello che succede nel suo paese. Molte volte più interessati di quelli che vivono a Los Pinos".
"La consulta ha aperto lo spazio affinché questi messicani dicano: 'Siamo interessati al Messico ed abbiamo un'occasione per farci sentire. Io, uno o una, che mi trovo in Corea del Sud, Norvegia o Stati Uniti, sono messicano e nel mio paese c'è qualcuno che tiene conto della mia opinione'. Questo genera un movimento di cui non è valutabile la qualità. Di loro si può dire che sono solo alcuni. Ma, chi mai ha tenuto conto di quelli che sono fuori?
"Nello stesso tempo, il progetto degli indigeni messicani trascende dalle loro frontiere, dal loro discorso e tocca altri diversi che si vogliono omogeneizzare. O resistono, o spariscono. Allo stesso posto di indigeni sono gli immigrati in Europa, o le donne. In tutte le parti si riproduce l'esclusione.
"E si riproduce la resistenza. Senza proporcelo, ci siamo sintonizzati su un solo canale e ci siamo incontrati con tanti. In questo senso, navigare in Internet è entrare nelle acque di un grande fiume dove navigano molte altre barche ed abbiamo scoperto di andare nella stessa direzione: un luogo dove possiamo avere uno spazio senza rinunciare ad essere noi stessi. Questo fa sì che la nostra parola abbia sostegno ed appoggio oltre quanto dichiarato.
È movimento nei cinque continenti".
- Ma tutta questa gente, che ci guadagnerebbe con gli Accordi di San Andrés, dato che non ne beneficerebbe direttamente?
- Questo è l'altro lato dello specchio", risponde, molto caratteristicamente, Marcos. "Se esiste un problema finanziario a Singapore, tutti i popoli ne risentono. Il trionfo di un movimento di resistenza di diversi, ha ripercussioni in tutto quello che la globalizzazione ha convocato come rete, non come controllo finanziario, ma di resistenza internazionale. Questa vibrazione positiva produce vibrazioni positive anche nel resto. Si può resistere e sopravvivere, si può costruire un posto nel mondo dove possiamo essere diversi".
ANCHE LE OCCASIONI SI CREANO
Secondo Marcos, "evidentemente c'è un settore interessato a che la mobilitazione fallisca: il governo".
"Si tratta di una grave critica alla sua politica. 'Tu vuoi distruggere la nazione ma tutta questa gente non vuole'. Come un plebiscito. Non importa tanto il numero dei voti quanto il significato della mobilitazione. Esiste un altro modo di manifestarsi della società civile che non sia l'occasione elettorale".
"Quello che si sta organizzando è un'occasione. Il crimine di massa, indignante, di Acteal, ha imposto un'occasione di mobilitazione. Ora cerchiamo di essere noi a creare un'occasione. Un obiettivo della consulta e 'costruire questa occasione di mobilitazione".
- Che effetto può avere la consulta in questi tempi di ondata pre-elettorale?
- Esiste una disputa sullo spazio politico della nazione, in due sensi, e su che tipo di nazione costruire a partire dal 2000", pensa il capo ribelle dell'EZLN.
"Da una parte, dentro la classe politica, i partiti principali e le correnti al loro interno. Tutta questa classe politica si sta disputando il protagonismo della problematica nazionale. È quello che a loro importa. Per esempio, a loro non interessa la democrazia del Congresso dell'Unione, né l'effettiva separazione dei poteri. Non importa che ci sia un Potere Giuridico effettivo, autonomo e indipendente.
"Da un'altra parte, esistono altre forze politiche che si disputano lo spazio. Noi proponiamo di uscire da questa logica e dire che il problema principale del paese non deve essere la classe politica, ma la gente, il popolo ed il suo posto nella politica. Vogliamo dire ai partiti e alle loro correnti, ai poteri dell'Unione, che quello che sarà in gioco nel 2000 è il posto ed il peso della gente. Stiamo tentando di costruire l'occasione del 1999 e non quella dei partiti politici. Che il 1999 sia l'anno della società civile. L'anno della mobilitazione politica del popolo messicano. Non per un partito o un candidato, neppure per un orientamento politico. Questo sarà il problema del 2000".
"Con la consulta, la gente guarda a se stessa e i partiti si vedono obbligati a voltarsi verso la gente. Quello che prospetta la società messicana è che cambi il rapporto tra i governanti ed i governati".
- E questo, aiuta o non aiuta i partiti politici?
- Se lo sapranno guardare bene, li aiuterà. Non possono disprezzare un movimento emergente, non importa la quantità. Se è capace di costruire un'occasione, è un movimento di ampio respiro. Non rivaleggia in voti. Non cerca elettori né di orientare gli elettori. Vedranno che annunciamo una nuova politica con la quale i partiti dovranno convivere, accada quel che accada con gli zapatisti. Il nuovo movimento non contende il potere, nemmeno annuncia un altro paese. Se ascolteranno, i partiti potranno evolversi verso nuove forme di relazione politica, e questo sarà l'unico modo per loro di sopravvivere".
Una bestia nera dell'attuale stato di cose è la persistenza del razzismo.
Secondo il subcomandante, è ancora molto. "Il razzismo non è solo del governo o della destra. Molti settori della sinistra sentono come un affronto che gli indigeni vengano fuori parlatori, orgogliosi, ribelli, fastidiosi, ballerini".
Questo modo di essere c'era già. "Non lo abbiamo inventato noi. Abbiamo preso la punta del filo e si è esteso con l'aiuto degli altri, che sono sempre stati lì e sempre sono stati come sono, ribelli da sé. C'è un motivo per cui continuano ad essere indigeni dopo tutto quello che hanno sofferto.
"Ognuno toglie la sua rispettiva cortina e si predispone all'incontro, ah, allora stavi lì, ed abbiamo cominciato ad ascoltarci, senza difficoltà, e così va e viene il riconoscimento, il dialogo. C'era già questo. In ogni caso agli indigeni zapatisti abbiamo fatto un terreno proprio: quello delle iniziative pacifiche. Non fu in azioni armate che ci siamo incontrati con loro".
Attraverso la consulta, dice Marcos, "gli zapatisti si incontreranno con tutti i popoli, e tutti i popoli con gli zapatisti. Ci mancherebbe solo che tutti si incontrassero con tutti, senza i trasporti del PRI o le piazze ufficiali".
- In quale momento si trova il Congresso Nazionale Indigeno?
- Quello che sappiamo è che il Congresso Nazionale Indigeno ha superato una tappa di crescita interna, con poche apparizioni pubbliche, di massa o nazionali. Il CNI ha lavorato sulle comunità, sui popoli indigeni. La convocazione alla consulta torna a riportare il CNI all'esterno. Anche per loro è arrivato il momento di rompere il silenzio. Dire sì, noi indigeni siamo qui e vogliamo un posto. Il problema è la guerra di sterminio, contro tutti i popoli indios.
CON UN PIEDE NELLA STAFFA
- A poche ore dalla partenza degli zapatisti, che difficoltà hanno incontrato per realizzare la consulta?
- Le principali difficoltà sono state economiche, noi pensiamo che in tutti i municipi del paese ci sia gente disposta ad incontrarsi. Il problema è portare gli zapatisti dalle montagne del sud-est a tutti gli angoli del paese. Ci sono posti molto lontani, di difficile accesso, o economicamente molto costosi. Per questo abbiamo insistito, a volte si può, a volte no, la crisi economica sta colpendo tutti, che ci si aiutasse economicamente, vogliamo che questo incontro si faccia. Solo da questo incontro può uscire una pace giusta, nuova, dignitosa, insomma, diversa. Non può uscirne la guerra. Qualsiasi cosa si faccia a favore di questo incontro è a favore della pace. Vale la pena, perché si sta giocando la possibilità di impedire che questo paese si divida.
"Ora stiamo combattendo con questo problema. I compagni che andranno in tutti i municipi del paese stanno studiando, si stanno preparando e stanno facendo pratica su come parleranno alla gente, si vedranno con operai, contadini, cittadini ed altri indigeni. Si stanno preparando tutti i giorni, fino al 12 quando partiranno. Stiamo facendo appelli continui affinché ci sostengano economicamente. C'è il conto corrente di Rosario Ibarra per questo. Questo denaro lo useremo per i camion, o per i muli, per quello che servirà".
- Esiste un certo margine di incertezza in questa partenza?
- Sì, perché tutto è stato molto zapatista. Un bel momento si parte, si va e improvvisamente proprio gli ultimi giorni arriva una frana, la neve e via a nasconderti dove puoi. Stiamo vedendo che il rapporto brigate e brigatisti è cresciuto in modo sproporzionato. L'avanzata della maggioranza dei coordinamenti grandi avviene da un giorno all'altro. Dal non avere niente, si presentano molte proposte. Ci aspettiamo fino all'ultima ora altre brigate ed altri brigatisti. La registrazione dei brigatisti non ha limite fino il 21 marzo. Dopo, bisogna diffondere i risultati, e poi decidere che cosa se ne farà, tutti insieme".
- Quali altre difficoltà hanno ostacolato questa partenza?
- Bene, l'Esercito. Molta persecuzione e pressione sugli Aguascalientes, fin da quando è iniziata la convocazione alla consulta. All'Esercito non piace nessuna iniziativa di pace; sembrava più contento quando facevamo mobilitazioni militari. Qualsiasi iniziativa di pace la critica con una maggiore pressione militare. Ora che i compagni si stanno concentrando negli Aguascalientes, la pressione militare è asfissiante. Persino così i compagni sopportano. Con gli elicotteri sopra, con i veicoli da guerra di fronte, gli aerei ed i loro voli radenti. Continuano a prepararsi per un'iniziativa di pace, sebbene tutto dica che quello che vogliono là sopra è una guerra".
- Puoi anticipare qualche cosa dell'atmosfera presente nelle comunità?
- Se mi metto a descrivere il sentimento medio del delegato, è un po' questa sensazione che si sente nello stomaco quando si viaggia in un paese che non si conosce e che hai voglia di conoscere. Un miscuglio di nervosismo, entusiasmo e paura di quello che succederà. Problemi molto concreti, che faccio se mi perdo, dove vado, a chi lo dico. L'entusiasmo di incontrarsi con più gente, di parlare da sé, non che un altro parli per te. Passare in primo piano, perché ci sono le comunità indigene stesse. Sono le comunità che vanno al dialogo, non i dirigenti.
"Quello che richiama maggiormente l'attenzione è la responsabilità con la quale svolgono il loro compito. Stanno assumendo una missione seria come quella del primo di gennaio del 1994. Con tutti i rischi, con tutta la necessità di andare ben preparati. E prendono i loro appunti, fanno le loro prove, bene, quelli che andranno nel tal stato, come è quello stato, indagano su come si vive".
- Il paese vedrà anche che sono indigeni, forse analfabeti, con problemi per parlare in spagnolo.
- Ma con il pensiero molto chiaro. Non battaglieranno, perché la gente si sa far capire da sé. Quando si passa per mediazioni, tutto si complica".
- Supponendo un buon risultato della consulta, quale sarebbe la tappa seguente del processo di pace in Chiapas?
- Beh, se viene bene, quanto meno una festa, no? Ballo con la marimba di San Josè e tutto questo. La tappa seguente è studiare come si presenterà, perché quello che si sta chiedendo, tra le altre cose, è che questa iniziativa di legge si studi nel Parlamento. Quindi, dobbiamo rivolgerci al Parlamento: questa gente pensa questo riguardo a questa iniziativa di legge, voi dovete tenerne conto. Dobbiamo trovare il modo, la forma, il tempo. Inoltre, ci sono le lezioni di organizzazione non partitica che ha generato questa mobilitazione".
- Ancora un'altra volta, in questi giorni si annuncia un investimento milionario, giusto nella denominata zona di conflitto, che effetto hanno avuto questi investimenti?
- È ridicolo. La struttura corporativa che hanno costruito il PRI ed i diversi governi del Chiapas, è un imbuto. Non ci puoi mettere centodieci milioni di pesos, credo che sia quello che sta dicendo Moctezuma, se quello che arriva alle comunità è una goccia. In questo modo, questa strategia di controinsurrezione fallisce non solo in termini storici, è impossibile comperare una ragione storica. Ma anche in termini pratici. Il denaro che dicono di investire si ferma presso funzionari grandi, medi, piccoli, fino a che all'indigeno non arriva niente. L'entusiasmo di Boby Albores e di quella gente per il fatto che molti zapatisti stanno partendo, non ha senso. Non solo non partono, non solo ritornano quelli che se ne erano andati. Comunità che erano del PRI stanno passando dall'altra parte, non gli danno niente.
"Ovvero, lo zapatismo non è diminuito nelle comunità, ma è cresciuto in termini di territori, in termini quantitativi e soprattutto in termini qualitativi. Il gran tour de force nella strategia di controinsurrezione è 'quanti possiamo bruciare'. La risposta è no. 'Non solo non posso, ma dobbiamo cedere più contingenti, perché la mia proposta non ha soluzione'.
Stanno frodando la loro stessa gente. Con questo denaro credono di comperare tempo, ma non stanno comperando neppure il tempo".
- Quindi, perché spende tanto il governo?
- Pubblicità. Vediamo chi abbocca all'amo che fanno questo per risolvere il conflitto. È solo perché Rabasa possa dire qualche cosa, perché Labastida possa dire qualche cosa, per avere qualche cosa da scrivere sui giornali. Investimento per "pubblicità".
- Se gli Accordi di San Andrés verranno rispettati, i benefici andranno più in là del Chiapas?
- Certo. Alla fine in questo senso lo zapatismo è nazionale, non so perché il governo insista sui quattro municipi. Che cosa significa nel momento in cui un indigeno priista di Oaxaca si incontra con uno zapatista e si rendono conto che stanno chiedendo la stessa cosa. In questo senso non ci sarà un mancato incontro. Non vogliamo discutere sulla sollevazione armata o sulla via pacifica, discuteremo le richieste indigene".
- Partecipa gente dei partiti alla consulta?
- Come no. In molti municipi partecipa il PRD, il PT, in alcuni casi come a Puebla, il Partito di Azione Nazionale. Solo del PRI non sappiamo ancora niente. Ma potrebbe, ovvio.
- La consulta fa enfasi sui giovani, tanto che c'è una fascia di età che comprende i più giovani, a cosa obbedisce questo?
- Il fatto fondamentale, quello della guerra, è qualcosa che non solo colpisce i maggiorenni, alla fine quelli che hanno dodici anni compiranno i 18 e i 20, cioè, vivranno nel paese che verrà dopo. Quindi dobbiamo chiedere la loro opinione. Perché non aprire spazi affinché comincino ad incontrarsi con la realtà in cui vivranno dopo. Come diciamo qui, se uno ha giudizio, ha diritto di esprimersi, di conoscere quello che sta succedendo. Se alla fine c'è una guerra in Chiapas, quello che significa questa guerra, chi andrà a colpire tra i 6, 10, 20 anni".
- Nelle comunità contadine di tutto il paese esiste una maturità propria molto comune tra il campesinado...
- Anche nel settore urbano. Giustamente quelli di 12 anni non sono bambine e bambini, sono adolescenti e hanno una cultura politica ampia, conoscenze, molta socializzazione. "È lì dove si deve aprire la possibilità di un'altra realtà nella quale esprimere opinioni con un peso specifico. Che cosa è una cultura democratica? Non solo esprimere opinioni o conoscere qualche cosa; ma anche che questa opinione possa avere un peso, si possa organizzare e produrre qualche effetto".
- Che si esprimano i bambini non è abitudine nella cultura politica messicana...
- Non vedo perché no. Quello che si sta giocando non è la cosa elettorale, è più grande. È il paese, perché non domandare al maggior numero di persone possibile, che vivranno in questo paese in futuro, che saranno governati? Quello che si sta decidendo qui non è una presidenza, non è un Parlamento, né un governatorato, si sta decidendo la possibilità di un altro paese. E questo va per le lunghe".
- E andrà bene?
- Noi pensiamo di sì. Il Messico che si sta corrompendo e distruggendo è quello di sopra. Il problema è che si sta trasformando in un vortice che risucchia quanto gli sta intorno. Quello di cui abbiamo bisogno, non solo è allontanarci da questo vortice; dobbiamo costruire la terra ferma su un altro lato per resistere a questa tormenta e ad altre che possono insorgere. È quello che dobbiamo fare. Se la resistenza è non lasciarsi travolgere dal vortice, la costruzione di un'alternativa è costruire la terra ferma. Quale potrebbe essere l'età minima per esprimersi sul futuro. Per un futuro che ti riguarda direttamente".
Per concludere l'intervista, il subcomandante Marcos si alza, si congeda alla luce del suo fuoco, si allontana con la sua scorta e quasi immediatamente si perde di vista. Noi ce ne andiamo da dove siamo arrivati.
Nel registratore restano ancora alcune parole sul tira e molla del processo di pace e di guerra in Chiapas.
"Esiste la possibilità che la mobilitazione abbia forza e sia difficile buttarla via", pensa Marcos.
"Questa è la scommessa. Per questo abbiamo chiamato la gente. Se raggiungeremo una mobilitazione tanto grande da essere irremovibile, il suo effetto allontanerà definitivamente la guerra".
(tradotto dal Comitato Chiapas "cap. maribel" - Bergamo)
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