Triple Jornada, 5 gennaio '99

Le vedove di El Charco chiedono giustizia ed appoggio per i loro figli

Maribel Gutiérrez

Le vedove del massacro di El Charco, Guerrero, stanno imparando a parlare. Otto donne mixtecas si sono visto all'improvviso obbligate a diventare capofamiglia, con la nuova responsabilità di mantenere da sole i loro figli oltre alle incombenze di prima e di sempre, di lavorare nella casa e nel campo.

Adesso hanno anche il compito di esigere giustizia.

In questi villaggi indigeni, la tradizione insegna che "per rispetto al marito" una donna sposata non parla, non esprime le sue idee, non pensa. Le donne mixtecas di questa regione parlano solo con i loro figli e con le vicine, nemmeno con gli uomini della stessa comunità.

Catalina Leobardo Aurelia, di 24 anni e madre di sei bambini, abitante in Ocote Amarillo, con l'aiuto di un interprete mixteco parla della situazione in cui vive dopo che ha perso il marito, Fernando Félix Guadalupe, di 25 anni, uno degli undici morti nel massacro del 7 giugno 1998.

Adesso deve essere lei il capofamiglia e dice che il suo lavoro è quattro volte più di prima.

Con frequenza poi scende al capoluogo municipale di Ayutla per chiedere "che il governo paghi per i morti, perché l'Esercito è stato il colpevole". Il governo si rifiuta a indennizzare, di riparare il danno e pure di aiutare i parenti, con il pretesto che i morti di El Charco sono caduti in uno scontro provocato da loro stessi attaccando le truppe che "ha respinto l'aggressione".

Accompagnata dal suo figlio maggiore, Gilberto Nicasio, di 9 anni, con in braccio il minore di solo un mese e da sua suocera, Teófila Guadalupe Antonia, la giovane vedova cammina da Ocote Amarillo fino al capoluogo municipale di Ayutla, per più di cinque ore attraverso pendii di montagna, per chiedere aiuto.

"Non si è risolto niente. Abbiamo bisogno che ci aiutino con alimenti. Hanno detto che ci avrebbero dato ogni due settimane o settimanalmente una dispensa, però da giugno abbiamo solo ricevuto due dispense - un chilo di farina di mais, fagioli, riso, zucchero, un litro di olio -. Ci hanno detto che ci avrebbero dato una borsa di studio per i bambini. Però non ci hanno dato niente".

Parla con difficoltà, pesando bene le parole, pronunciandole una per una lentamente, come se avesse paura a rispondere alle domande fatte per mezzo dell'interprete, Donaciano Morales.

Giustifica la sua richiesta di aiuto: "Quando viveva mio marito, lui sapeva come poteva mantenere la famiglia, però adesso senza di lui non so che cosa possiamo fare, come possiamo vivere senza di lui".

Parla di suo marito: "Si dedicava a seminare mais, canna da zucchero, fagioli e jamaica e si occupava anche delle due vacche. E' l'unica cosa di cui si occupava, perché ad altro non si dedicava", dice, anticipando quella che crede possa essere la seguente domanda sulla presenza di suo marito nella scuola di El Charco quando successe il massacro.

Spiega: "E già dopo, quando si stava facendo la riunione lì, lui era presente però solamente per ascoltare, per orientarsi, perché voleva che la sua famiglia vivesse meglio e invece è stato peggio".

Poco a poco parla delle sue preoccupazioni, della sua tristezza, del suo dolore e della sua paura. E' preoccupata perché non riesce ad occuparsi dei figli, a dar loro da mangiare "almeno una tortilla con sale" perché deve uscire a lavorare ai campi e li lascia soli. E' preoccupata perché i bambini sono denutriti, per "la mancanza di alimenti" e perché non ha denaro per mandarli a la scuola.

Sente molta tristezza e dolore per la morte di suo marito, le manca, si sente molto sola.

E ha paura, perché continua a venire l'Esercito, come quando sono arrivate le truppe ed hanno circondato la scuola di El Charco all'alba del 7 giugno 1998 ed hanno sparato contro i contadini che stavano dormendo nelle aule.

Quattro giornate

Catalina deve organizzarsi per sopravvivere. Quando viveva suo marito, lui andava da peone ed a lei spettava macinare, preparare il cibo, lavare, curare i bambini e se avanzava tempo aiutava suo marito a coltivare il loro piccolo appezzamento di terra.

Adesso lavora quattro volte di più e anche così pensa che non riuscirà a mantenere i suoi figli. "La donna lavora, però non è uguale all'uomo", dice.

Con tutta la paura che sente, perché continua ad arrivare l'Esercito nei villaggi mixtecos, lei deve uscire a lavorare come peone, per una paga di 15 o 20 pesos al giorno.

In dicembre si fa la raccolta del mais e se va bene, oltre al salario le regalano delle pannocchie in più. Lavora 8 ore, dalle 7 della mattina alle 3 o alle 4 del pomeriggio.

Quando ha tempo lavora nel campetto di suo marito.

Ogni giorno si alza alle 3 della mattina. Lava il mais, lo macina e fa le tortillas per lasciarle ai suoi figli prima delle 7, che è l'ora a cui si va a lavorare come peoni.

Di ritorno passa a tagliar legna, la porta a casa, lava i piatti ed i panni, fa il bagno ai bambini, si occupa di loro e dà loro da mangiare.

Che si castighino i colpevoli

Gli suoceri di Catalina vorrebbero appoggiarla, però non possono. Loro pure sono rimasti senza appoggio con la morte di Fernando Félix Guadalupe.

Teófila Guadalupe Antonia, di 49 anni, suocera di Catalina, piange suo figlio e guarda con tristezza la solitudine dei suoi nipoti e della nuora.

La vedova e sua suocera chiedono che si castighino i colpevoli del massacro. Perciò sono state a Ayutla il 29 novembre ed hanno cercato l'appoggio del Coordinamento Contadino delle Organizzazioni Sociali, che si è formato in seguito al massacro di El Charco.

Catalina dice che il colpevole della morte di suo marito "è il governo, i militari" e pensa d'invitare le altre vedove per richiedere insieme i loro diritti.

La situazione delle otto vedove è uguale. Chiedono appoggio per mantenere i loro figli ed il governo "si fa sordo". Adesso iniziano a parlare, dicono che la necessità le obbliga a mettersi a capo della famiglia.

Margarita Joaquina Morales Castro, abitante di El Charco, è rimasta sola con sei figli. Suo marito, Mario Chávez García, di 33 anni, è stato pure lui stato mitragliato nella scuola di questa comunità il 7 giugno.

Parla solo mixteco e per mezzo di una interprete dice che si sente triste, perché non ha più appoggio. Si sente addolorata perché suo marito non c'è più. Adesso si occupa dei suoi sei figli e si occupa del campo di mais che le ha lasciato suo marito, fa il lavoro dei campi e deve anche lavorare come peone per guadagnare denaro, perché adesso è più povera.

Dice che ha appreso ad essere madre e padre. Al mattino, molto presto, va a lavorare come peone, poi lavora nel campo che le ha lasciato suo marito, quindi si occupa del lavoro di casa. Però nonostante tutto questo, non riesce a mantenere i suoi figli in modo che abbiano un'educazione e perciò è andata a chiedere aiuto alla presidenza municipale.

Ricorda che ha sofferto molto il 7 giugno. Quel giorno ha lasciato la sua casa con i bambini ed ha lasciato polli e maiali. Come tutti gli abitanti della comunità, è ritornata quando si sono ritirate le truppe. Suo marito non appariva, è stata ad Ayutla a cercarlo e cinque giorni dopo le hanno confermato che era uno dei morti.

L'interprete spiega che il giorno del massacro i guachos sono entrati nella comunità e lì si sono fermati, non lasciavano che la gente si avvicinasse e distruggevano tutto nelle case. "La gente aveva paura di avvicinarsi, guardavano i guachos, da dove era in montagna e lei, Margarita Joaquina, dice che aveva paura ad avvicinarsi a casa sua e che ha ancora paura adesso, perché l'Esercito "arriva con aggressività alla comunità".

Denuncia la mancanza di aiuti, dice che varie volte è andata ad Ayutla, ma perde tempo, spende denaro, lascia i bambini, la sua casa, il suo lavoro e non le hanno dato niente.

Altre vedove hanno chiesto aiuto attraverso i maestri bilingue. Però a più di sei mesi dal massacro di El Charco nessuno è riuscito ad ottenere qualcosa né il governo municipale né le organizzazioni che si sono dedicate alla difesa delle vittime - come il Centro dei Diritti Umani Miguel Agustín Pro, il Centro di Promozione e Difesa dei Diritti Umani di Acapulco, la Commissione dei Diritti Umani "La Voce dei senza Voce" di Coyuca de Benítez, il Centro dei Diritti Umani della Montagna Tlachinollan -. Ormai c'è un dossier completo su di loro, ma i loro nomi non appaiono assolutamente nella pratica penale dell'inchiesta per i fatti del 7 giugno.


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



logo


Indice delle Notizie dal Messico


home