"Non lasciateci sole"

Intervista con la Comandante Ramona e con la Mayor Ana María

Matilde Pérez U. e Laura Castellanos - Pubblicato sulla Doble Jornada - 7 marzo 1994

Un'altra delle inquietudini delle donne indigene è la libertà di scegliere la propria coppia. "C'è ancora l'usanza della dote, non si prende mai in considerazione la ragazza, lei viene venduta (in questa regione la media della dote nuziale è di due mila nuovi pesos). Il fidanzamento non esiste, è un peccato che sia così ".

Ana María, Maggiore della Fanteria: "Non lasciateci sole!" è il grido disperato delle donne dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, affinché la loro speranza di venire ascoltate dentro e fuori delle loro comunità non muoia. "Chiediamo a tutte voi di lottare con noi", dicono in tzotzil e in spagnolo la comandante Ramona e la maggiore Ana María. Il loro appello alle donne messicane non è perché prendano le armi, ma perché appoggino, da dove sono, i cambiamenti proposti dalla Legge Rivoluzionaria delle Donne, così come l'esteso plico di rivendicazioni in materia di uguaglianza, giustizia, salute, educazione e abitazione. Quella notte, la penultima che trascorreranno nella Cattedrale, sono andate dietro all'altare accompagnate dal Subcomandante Marcos.

Lui, vestito con la sua inconfondibile uniforme militare. Alcuni passi dietro, le due uniche donne del gruppo dei 19 delegati del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno. "Ve le lascio qui affinché tutti quelli che vogliono possano parlare con loro", dice in tono scherzoso mentre si congeda da un gruppo di cinque donne giornaliste e due fotografi, che cercano di intervistare le donne del EZ. Gli occhi a mandorla e vivaci di Ramona riflettevano stanchezza. La gonna di lana nera, la blusa tessuta a mano con vistosi ricami e la sua bassa statura contrastano con il cappotto grigio e il massiccio corpo di Ana María. Con loro rimane il comandante Javier (per tradurre dal tzotzil allo spagnolo quello che Ramona avrebbe detto). Le parole della comandante, anche se in tzotzil, scorrono soavi dal suo cuore indigeno. "Sono venuta via dalla mia comunità per cercare lavoro per pura necessità, non avevamo di che vivere. Quando arrivai in un altro posto cominciai a capire che lì la situazione delle donne non è uguale a quella nella campagna. Lì ho cominciato a capire e a pendere coscienza delle differenze, conobbi così l'organizzazione (EZLN) e che c'è la necessità di organizzare anche le donne". Nell'EZLN la partecipazione femminile è essenziale. Ramona appartiene al quadro politico che lavora nelle comunità; Ana María fa parte del circa 30 per cento delle combattenti o insurgenti che rinunciano volontariamente a formarsi una famiglia per darsi alla lotta armata.

"Io sono insurgente. Ho dedicato tutta la mia vita e il mio tempo alla causa", afferma Ana María, maggiore di Fanteria di 26 anni d'età, la quale parlando degli sgomberi e delle repressioni sofferte, aggrotta con tristezza le ciglia, unico segno di espressione che il suo passamontagna lascia vedere. "È una storia molto lunga", dice. "Partecipo a lotte pacifiche, marce e incontri da quando avevo otto anni. La mia famiglia è gente lottatrice che si è sempre organizzata per avere una vita degna, ma mai ci siamo riusciti seguendo questa via. Facevamo parte di un'organizzazione –non dice quale- con altre persone, con altri villaggi. Tutti ne facevamo parte, anche i figli ed è così come abbiamo preso coscienza del fatto che con le lotte pacifiche non avremmo raggiunto niente. E' stato così durante molti anni. La mia famiglia, prima che io nascessi, stava già lottando. [Nell'EZLN] arrivai da piccola; avevo 14 anni quando mi unii alla lotta. All'inizio eravamo solo due donne delle 8 o 10 persone che più di 10 anni fa dettero vita al movimento". Molte delle donne che sono entrate nell'EZLN sono venute senza avvisare la propria famiglia. "Io quando venni via da casa mia e seppi dell'esistenza di una organizzazione armata, mi decisi e mi dissi: anch'io prenderò le armi! perché uno dei miei fratelli già c'era; ma i miei genitori, la maggior parte della mia famiglia non sapeva niente. Allora scappai di casa ed andai a cercare i miei compagni per potermi unire a loro e così trascorsi molti anni imparando e partecipando a questo senza che la mia famiglia se ne accorgesse. Questo è successo in molti posti, in molte famiglie". "Lì, io e mio fratello abbiamo imparato le prime lettere e a parlare spagnolo. Poi ci insegnarono tecniche di combattimento e la politica per poter parlare con il popolo e spiegargli la nostra causa. Domandammo terra, ma il governo non ce la dava, allora cominciarono le occupazioni e la risposta era la repressione.

Allora ci dicemmo 'se non ce la dà con le buone, la prenderemo con le cattive' e cominciammo ad armarci.

Le donne iniziarono ad integrarsi perché vedevano la nostra presenza nell'esercito; allora le donne dei villaggi cominciarono ad istruire le loro figlie, sorelle, nipoti e dicevano loro 'è meglio prendere un'arma, è meglio combattere'", parla con veemenza la maggiore Ana María, che ha avuto l'incarico del comando che ha occupato la città di San Cristόbal de las Casas, la mattina del 1º gennaio.

Le protagoniste invisibili dell'EZLN

La mattina di quel primo giorno dell'anno, le donne furono protagoniste invisibili degli avvenimenti che trascesero le frontiere del paese. In quel momento non si sapeva –e a 66 giorni del fatto, molti lo ignorano- che una di loro era responsabile della presa della seconda città per importanza del Chiapas, il cui operato venne considerato dall'EZLN un successo perché non si registrarono perdite umane. Seduta di fronte alle giornaliste di tre mezzi di informazione messicani e uno della Spagna, Ana María spiega come si era preparato l'attacco alla città fondata dal conquistatore spagnolo Diego de Mazariegos. "Per prima cosa abbiamo votato se si cominciava la guerra o no. Dopo aver deciso abbiamo organizzato l'attacco con l'appoggio dei comandi superiori. Poi abbiamo organizzato le tattiche militari: come avremmo preso (i sei capoluoghi municipali) e a chi toccava andare. Quindi, siccome io comando un'unità, sapevo che per prima cosa dovevo andare al fronte dei miei compagni. Io sono il comando e devo dare l'esempio... Siccome siamo molti, ci organizziamo in unità ed ognuna ha il suo comando. Io comandavo una unità molto grande con che hanno molti miliziani, più di mille. Questa grande unità è divisa in piccole unità ed ognuno ha il suo comando. Ogni comando viene istruito, gli viene detto quello che deve fare, come attaccare. Ogni insurgente sa come posizionarsi e che cosa deve fare, e noi al comando stiamo controllando che tutto venga fatto bene. Quando abbiamo attaccato San Cristόbal ad alcuni è toccato installare i posti di blocco, ad altri sono toccate le imboscate nel caso si facesse vivo l'Esercito Federale; si controllavano le entrate e le uscite di San Cristόbal; ad altri è toccato attaccare la Presidenza (municipale). Ad ogni unità è toccato compiere una missione, così è stato organizzato. Il comando coordina tutto".

- E negli scontri a Rancho Nuevo e a Ocosingo, hanno partecipato le donne?

- Sì, per esempio quando furono liberati i prigionieri nell'attacco al Cereso (carcere penale), coloro che aprirono le porte per liberare i prigionieri erano donne. Un prigioniero ha raccontato che vide entrare un gruppo di donne con gli orecchini e gli sembrò molto strano che le combattenti indossassero orecchini e collane mentre attaccavano. C'erano gruppi di donne, erano tutti mischiati e ad ognuno spetta un lavoro. A qualsiasi persona si dà una missione, che viene rispettata.

La maggiore di Fanteria, specifica le differenze fra le miliziane e le insorgenti del quadro militare "entrambe sono combattenti, ma le miliziane vivono nel loro villaggio, ricevono l'addestramento e vanno a combattere quando tocca a loro. Noi, le insurgenti, viviamo negli accampamenti e ci dividiamo per andare nei villaggi a insegnare politica e educazione scolastica".

Fra il curioso e l'attento, alcuni delegati dell'EZLN si avvicinano alcuni momenti ad ascoltare l'intervista. Le due donne con il volto coperto, davano le spalle ad un'immagine della Madonna del Rayo. Fiori marci ai suoi piedi, evidenziano l'assenza di fedeli negli ultimi dieci giorni in cui il santuario è rimasto chiuso al culto.

La giornalista spagnola del quotidiano El Mundo, fa una domanda sulla possibilità per le insurgenti di formarsi una famiglia. Ana María, nella cui mano destra porta una vera, risponde: "Per sposarsi o unirsi, bisogna chiedere permesso ai comandi superiori e sono loro che dicono sì o no, ma non possiamo avere figli, perché non dobbiamo mettere in pericolo la vita di un bambino. Fra le insurgenti c'è la pianificazione famigliare, ma molte hanno avuto figli e hanno dovuto lasciarli con i loro genitori per non abbandonare la lotta".

- E quale è stata la missione delle donne nelle comunità?

- Ci vuole tempo per parlare di questo, perché sono molte le cose che si fanno nelle comunità. Da quando è cominciato a svilupparsi questo lavoro [dell'EZLN], la partecipazione delle donne nella sicurezza è stata molto importante. In casa, nei villaggi, ci sono basi. Abbiamo una rete di comunicazione e quindi il lavoro delle donne è di controllare la sicurezza; per esempio, se arrivano i soldati avvisano e anche se ci sono dei pericoli. Non sono necessariamente tutte delle combattenti.

Quando abbiamo attaccato le città, sono rimaste le madri a prendersi cura delle comunità, dei bambini e sono state le giovani ad andare a combattere. Molte donne volevano unirsi, ma erano sposate ed avevano bambini e non gliel'hanno permesso. Ma la lotta non è solamente con le armi, il lavoro delle donne dei villaggi è di organizzarsi per fare lavori collettivi, per studiare ed imparare qualcosa dai libri. Inoltre aiutano l'EZLN perché formano i loro figli, i fratelli, i cognati e si preoccupano affinché possano mangiare in montagna. Questo è il loro lavoro; fare tostadas, pinole, il pozol e anche coltivare verdure. Hanno orti dove coltivano le verdure e le mandano agli accampamenti. Le nonne si occupano dei bambini delle altre donne che lavorano.

- Sono le donne che hanno fatto le uniformi?

- Sì, tutto si fa all'interno dell'EZLN; abbiamo laboratori di sartoria, armeria; anche le donne partecipano, facendo pezzi per armi, dove si fanno le piccole bombe per potersi difendere. Le donne dei villaggi, anche se non sono combattenti o miliziane, possono fare qualsiasi di questi lavori .

- E gli uomini possono pure svolgere le funzioni delle donne come cucinare, lavare i piatti, occuparsi dei bambini?

- Nell'EZLN tutto è paritario. Non esistono differenze, un giorno spetta agli uomini preparare da mangiare, il giorno dopo alle donne e un altro mischiati. Se c'è da lavare i vestiti, pure l'uomo può farlo.

- Ma questo si dice con facilità che gli uomini rimangano a casa a lavare, mentre le donne fanno le bombe. Parliamo di comunità indigene dove le disuguaglianze fra i sessi sono molto forti.

- Nelle comunità dove siamo organizzati si porta a termine il lavoro. Certamente nelle case dei compagni lì esiste ancora un po' di disuguaglianza, ma è già molto poca! I compagni non maltrattano più tanto le donne, le aiutano a portare il bambino sulle spalle. Prima che ci organizzassimo, quando era ora di andare al campo, l'uomo andava a cavallo e la donna camminava dietro, portando il bambino sulle spalle. Capita ancora che l'uomo torni dai campi a cavallo e la donna con la legna sulle spalle e il bambino davanti. Di questo ne può parlare meglio il compagno (ed indica il comandante Javier, che traduce in spagnolo le parole in tzotzil della comandante Ramona).

Alla richiesta di Ana María, il comandante Javier racconta emozionato: "Quando io ero piccolo avevamo un'usanza che ho imparato dai miei nonni e dai nonni di mio padre. All'interno della comunità indigena, come già si è detto, la vita delle donne è molto deplorevole e allora non si tenevano in considerazione tutte queste sofferenze. Davvero! Molti di noi uomini, non sapevamo com'è la società, la situazione. Non è come ora, che stiamo prendendo coscienza della lotta. Prima, la partecipazione delle donne non si prendeva in considerazione. Molte donne si alzavano alle tre o alle quattro di mattina per preparare da mangiare e quando albeggiava partivano insieme all'uomo, loro a cavallo e le donne andavano dietro correndo, portando il bambino sulle spalle. Quando arrivavano al lavoro, la parte del lavoro è uguale a quella degli uomini, si tratti di raccogliere il caffè o nella milpa; ma quando arrivano a casa hanno anche un altro lavoro, quello di preparare da mangiare. Molti di noi uomini, siccome non ci rendiamo conto delle decisioni, solo comandiamo ed aspettiamo il pranzo, ma le povere donne - davvero! - si tengono in braccio il bimbo che piange e macinano il mais per le tortillas, spazzano la casa e anche se è notte vanno ancora a lavare i vestiti perché non hanno avuto il tempo di farlo durante il giorno…".

Giornalisti e fotografi che inizialmente ascoltavano le testimonianze di Ramona e di Ana María, si sono dispersi durante la prima ora di conversazione. Gli occhi degli insurgenti riflettono stanchezza e nella chiesa millenaria l'intensità del freddo cresce. "Qui fa meno freddo che nella mia comunità" dice Ramona.

Nonostante la sua piccola figura si è guadagnata il rispetto nelle comunità dove svolge il lavoro politico con le donne, ma non le è stato facile. Lei, come Ana María ed altre, hanno preteso dagli uomini che si rispettasse il loro diritto a organizzarsi, così come a far parte del quadro militare. Sembra che Ramona non senta il freddo. Con le braccia incrociate tranquillamente sul grembo, cerca di far comprendere ai giornalisti il risveglio degli indigeni de Los Altos del Chiapas. "Le donne sono arrivate a capire che la loro partecipazione è importante per cambiare questa brutta situazione, cosicché stanno partecipando, anche se non tutte direttamente nella lotta armata. Non c'è altro modo di cercare la giustizia, questo è l'interesse delle donne".

- Che cosa insegnate alle donne nelle comunità?

- Tutto quello che si applica in una lotta - risponde Ana María -. La prima cosa che si impara arrivando in un accampamento è imparare a leggere e a scrivere, se non si sa; se non ci si sa esprimere viene insegnato un poco di spagnolo affinché possano parlare e leggere i libri; si insegna ad usare una macchina da cucire, da scrivere ed a fare pezzi di armi; si insegnano tattiche di combattimento; leggiamo libri politici. Studiamo tutta la storia del Messico, è quello che studiamo di più e libri di lotta di altri paesi.

- A che età si entra?

- Ora abbiamo molte bambine e bambini nella milizia, ci sono bambini di otto e nove anni che sono inquieti, vedono un insurgente e vanno ad accarezzare l'arma, dicono "anch'io ne voglio una, voglio essere insurgente" e giocano ad esserlo. Per esempio, poco tempo fa sono stata in una comunità e ho domandato ai bambini di Zapata e mi hanno detto che era un rivoluzionario che lottò per la terra e che fece molto per i contadini. Anche loro vanno alle riunioni e molti sono molesti perché diciamo loro che non possono giocare con le armi finché non crescono.

Per cui dobbiamo accettarli. Certamente non li portiamo a combattere, ma molti si mettono di punta e dicono 'voglio venire', per questo c'erano alcuni di loro qui, quando siamo venuti ad attaccare San Cristόbal.

- Fate corsi di salute riproduttiva e di salute sessuale per gli adolescenti?

Sì, in molte comunità si fa questo lavoro, è quello delle compagne dei servizi di sanità. Siamo divise per servizi: sanità, armeria, amministrazione, intendenza, ed è così in tutte le comunità; ancora di più nei combattenti, perché così sono organizzati.

L'Aborto e la terra per le Donne, rivendicazioni assenti nel Plico di Petizioni

Era l'ultimo giorno del dialogo quando vennero fatte conoscere le 34 rivendicazioni dell'EZLN. Una settimana prima il Subcomandante Marcos aveva sottolineato davanti alla stampa che quelle della popolazione femminile erano le più ampie. Della lista, queste occupano il posto numero ventinove ed emerge che sono una "petizione delle donne indigene". La prima delle dodici che il documento contiene si riferisce all'installazione di cliniche per i parti ginecologici. Nell'insieme delle petizioni si distaccano quelle che faciliterebbero le faticose giornate domestiche, che sono: la costruzione di asili nido, di cucine e mense per i bambini della comunità, l'installazione di mulini di nixtamal e tortillerias (le donne dedicano da 3 a 5 ore diarie, in media, per macinare il mais e preparare le tortillas). Inoltre cercano di creare e installare piccole imprese di assistenza tecnica, per l'allevamento di polli, conigli, agnelli e maiali. Chiedono materie prime e stumentazione per l'installazione di forni per il pane e di laboratori di artigianato, come anche trasporti e mercati per una equa commercializzazione dei loro prodotti. Rispetto alla loro emarginazione educativa chiedono scuole di abilitazione tecnica per donne. Queste rivendicazioni, consegnate al governo, sono state il prodotto della consulta che Ramona ha realizzato nelle comunità.

All'esterno, le indigene sollecitano appoggi tecnici ed educativi; invece all'interno [dell'EZLN e delle comunità], le loro esigenze sono: accesso al potere nella presa di decisioni; scegliere liberamente la propria coppia; non venir picchiate o maltrattate fisicamente né dai famigliari né da estranei; decidere il numero di figli che possono avere e curare, così come avere il diritto e la priorità nell'alimentazione e nell'attenzione alla salute.

Le due donne del CCRI che hanno partecipato al dialogo per la pace, ricordano come un anno fa è nata La Legge Rivoluzionaria delle Donne. "Ci avevano dato diritto a partecipare alle assemblee e agli studi, ma non c'era nessuna legge delle donne. Abbiamo protestato ed è così che è nata la legge delle donne. È stata decisa da tutti e presentata in un'assemblea di tutti i villaggi. È stata votata da donne e uomini. Non ci sono stati problemi. Durante il processo sono state chieste le opinioni delle donne nei villaggi. Noi insurgenti abbiamo contribuito a scriverla", racconta Ana María.

La salute riproduttiva delle donne indigene è la questione che più emerge sia nella legge citata che nelle petizioni presentate al governo. Nonostante l'alta percentuale di mortalità materna in Chiapas, soprattutto nelle comunità indigene (nello stato muoiono 117 donne ogni centomila bambini nati vivi e l'indice occupa il terzo posto a livello nazionale) e di aborti praticati in condizioni rischiose (una donna su cinque delle zone rurali del paese, in età fertile, ha avuto un aborto) le donne dell'EZLN non hanno discusso su questa ultima questione.

- Ramona, sei stata nelle comunità e hai parlato con le donne, non si è presentata la questione dell'aborto?

- No, no…

- Perché?

Entrambe le donne si scambiano uno sguardo ed è la maggiore Ana María a rispondere:

- Non ci hanno pensato…c'è una credenza nei popoli indigeni che non l'aborto ci deve essere.

- Ciò nonostante ci sono donne che muoiono per aborti effettuati male.

- Ah, sì, certo! Ci sono delle ragazze a cui questo succede.

- Sarebbe toccare un tradizione?

- Non lo so -Ana María gira il volto per guardare Javier con un'espressione di aiuto- tu, compagno, che pensi della credenza, di quello che c'è nei villaggi…

- Mah -dice Javier- non ci si è trovati spesso in questa situazione. Nei villaggi c'è una tradizione su come si curano le donne.

- Ma questa tradizione comporta dei rischi per la salute e la vita delle donne- interviene la giornalista.

- Molte volte -prosegue Javier- sì, ci sono (dei rischi) perché non ci sono medici a disposizione. Ma le donne hanno le loro usanze su come curarsi.

Davanti all'insistenza di sapere se le donne indigene andrebbero in una clinica per praticare in maniera sicura un aborto -nel caso che un giorno ci fosse questo servizio-, Ana María interrompe Javier per dire: "Quando diciamo di avere una tradizione, questo non vuol dire che vogiamo continuare allo stesso modo. Ma in molte comunità si applica un castigo se la donna non ha detto che era incinta ed ha voluto abortire. Molte volte è questo quello che succede, la ragazza va dalla levatrice o da una curandera e chiede che le venga praticato l'aborto per paura che la sua famiglia la maltratti o la castighi. Nelle comunità che io conosco, le fanno pagare una multa o prendono l'uomo che ha messo incinta la ragazza e lo incarcerano per alcuni giorni o gli dicono che paghi le cure della donna".

Per quanto riguarda l'uso dei contraccettivi, la maggiore della Fanteria chiarisce: "Questo non esiste, in nessuna delle comunità si sa cos'è e questa cosa delle gravidanze delle donne succede raramente, perché i padri stanno molto attenti che le loro figlie non rimangano incinte; quindi per la paura che le ragazze hanno nei confronti dei loro padri, non possono parlare a nessun uomo. Se rimangono incinte, molte di loro tengono i bambini perché è molto difficile praticare un aborto e se si fa, molte muoiono e non si sa".

Un'altra delle inquietudini delle donne indigene è la libera scelta della propria coppia. Ana María -proposta ed eletta dalle insurgenti per partecipare ai dialoghi per la pace- commenta: "C'è ancora l'usanza della dote, non si prende mai in considerazione la ragazza, lei viene venduta (in questa regione la media di una dote nuziale è di due mila pesos nuovi). L'essere fidanzati non esiste, anzi è un peccato".

Un punto assente nelle rivendicazioni delle donne è il loro diritto a possedere la terra. Nonostante che Ramona e Ana María abbiano riconosciuto che questa richiesta è vitale per la sopravvivenza e che alla lotta per ottenerla partecipano sia uomini che donne, non hanno considerato che la distribuzione dovesse includere anche le vedove e le indigene senza compagno. Ana María segnala che "questa è una richiesta di tutti e se c'è qualcosa di particolare delle donne -nel plico di petizione- è perché ci sono cose che gli uomini non pensano che potrebbero essere necessarie per noi; in questo caso, è venuta fuori una richiesta per ottenere una scuola speciale per donne nella quale possano migliorare e studiare anche se sono anziane". Nonostante ciò, Ramona dà un maggior valore alla possesso della terra. "Anche se all'interno della legge agraria non abbiamo diritto ad avere terra, noi donne sentiamo che è molto importante, perché quando non c'è terra arriva la fame, la miseria, per questo molti bambini muoiono di denutrizione. Per questo noi donne abbiamo anche diritto alla terra perché ci sia cibo, perché non c'è altro mezzo per sopravvivere".

Invito delle Combattenti ai Mezzi di Comunicazione

Due ore dopo l'inizio dell'intervista solo tre giornaliste, fra le quali una spagnola, continuano a parlare con le zapatiste affaticate. Ad alcuni metri di distanza, si vedeva il Subcomandante Marcos che conversava con altri giornalisti. Le forti risate del gruppo risuonano nella vecchia cattedrale. L'intenso sguardo di Ramona cattura una delle reporter. Quando questa scopre di essere osservata, i suoi occhi cambiano da un'espressione seria ad una divertita. Attraverso la fessura del passamontagna, Ramona ride con gli occhi. La gente del vescovato sollecita a concludere l'intervista. Ci sono ancora molte cose da chiedere, molte da dire, ma passata la mezzanotte, la stanchezza cresce ed il prossimo congedo diventa inevitabile. Arrivano le ultime domande.

- Pensate che i mezzi di comunicazione abbiano dato sufficiente copertura alle vostre richieste come donne indigene?

- No, non sono venute fuori molto, perché non ci hanno intervistate.

- Perché secondo voi non vi hanno intervistato?

- Non lo so, non lo capiamo, forse interessano loro di più le cose nazionali.

- Le richieste delle donne zapatiste non sono nazionali?

- Sì, certo. Ma non so perché non ci hanno intervistate. Abbiamo parlato con molti pochi e nei mezzi di informazione è apparso molto poco sulle donne.

- Avete un commento o una richiesta per i mezzi di comunicazione?

- Quello che vogliamo noi è che diffondano questa lotta affinché molte donne prendano l'esempio e facciano qualcosa in altri luoghi, non che vengano qui dove siamo noi. Anche se non prendano le armi, che lottino in qualche modo e che ci appoggino, che altre donne si alzino in lotta. Noi sappiamo che la nostra lotta non è solo di donne, ma alla pari, di uomini e donne; ma anche noi chiediamo la stessa cosa che il Subcomandante ha chiesto ai mezzi di comunicazione quando ha detto 'non lasciateci soli'. Chiediamo più appoggio per la democrazia, perché è lì dove la cosa è un po' bloccata, dove è più difficile, a livello nazionale ed è dove c'entrano anche le donne perché fanno parte della società.

- Temete che la speranza del cambiamento muoia?

- No, non abbiamo questo timore, perché faremo tutto il possibile per riuscirci e pensiamo che fino ad ora abbiamo avuto un appoggio molto grande dal popolo del Messico. Abbiamo questa speranza di arrivare a cambiare la situazione, ma se non ci riusciamo (forse moriamo o ci ammazzano) continueremo a lottare fino a quando verremo ascoltati e tenuti in considerazione.

Emozionata, Ana María commenta che dall'inizio dell'EZLN, festeggiano l'8 marzo, Giorno Internazionale della Donna. Per questo domani sarà festa nelle loro comunità e gli uomini saranno gli incaricati di preparare da mangiare.

- Anche se -commentano scherzando- il risultato non è molto buono.

Finalmente l'intervista finisce; anche l'incontro del Subcomandante Marcos con altri mezzi di comunicazione termina. Con sorpresa dei giornalisti, quando la Comandante Ramona si congeda, manifesta in spagnolo la sua preoccupazione di non dominare come vorrebbe questa lingua: "Studierò per poter rispondere meglio la prossima volta", dice ed il passamontagna non può nascondere un grande sorriso. Poi, sparisce con il gruppo. Alcuni minuti prima, in tzotzil, aveva insistito: "La nostra speranza è che un giorno la nostra situazione cambi, che le donne vengano trattate con rispetto, giustizia e democrazia".


(traduzione di Elisa Puggelli e del Comitato Chiapas di Torino)

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