IL MANIFESTO 13 Agosto 1997

Guardie bianche

La guerra sporca che il potere federale messicano conduce nel Chiapas degli zapatisti.

Tre disertori del gruppo paramilitare di estrema destra "Paz y Justicia" rivelano a "La Jornada" i retroscena degli ultimi fatti di sangue nel nord dello stato, le persecuzioni contro gli indigeni filo-zapatisti, di sinistra o legati alla diocesi di San Cristóbal de las Casas e come l'esercito arma e rifornisce le "guardias blancas"

ANGÉLES MARISCAL - SAN CRISTOBAL (CHIAPAS)

DEFEZIONI E DISACCORDI, violenze e esecuzioni clandestine hanno contrassegnato l'ultimo periodo all'interno del gruppo paramilitare di destra Paz y Justicia. Nel tentativo di mascherare questa situazione, che ha reso invivibile la zona nord del Chiapas dove i miliziani assassinano decine di indigeni filo-zapatisti o di sinistra, la famigerata formazione, patrocinata dai settori duri del Pri (il partito al potere) locale, imputa i recenti crimini a "catechisti" appartenenti alla diocesi di San Cristóbal.

A raccontarlo sono tre ex miliziani, che sono stati per un periodo a stretto contatto con i 33 comandanti del gruppo paramilitare di estrema destra e che hanno raccontato alla Jornada come opera la loro ex organizzazione e perché vi si sia sviluppata una violenta lotta intestina.

Prima, il caso di Santiago Sánchez Torres, comandante responsabile della comunità di Masojá Grande. E' stato assassinato il 21 luglio scorso insieme a suo fratello Domingo e a Marcos Albino Torres. La versione dei dirigenti di Paz e Justicia - che avevano accusato del triplice omicidio simpatizzanti zapatisti appartenenti alla diocesi di San Cristóbal de las Casas - viene smentita dai tre: "Era il comandante più forte delle comunità vicine a Masojà Grande, nel municipio di Tila; era incaricato di organizzare il saccheggio di bestiame delle comunità che sloggiavamo dalle loro terre. Era lui che amministrava i fondi destinati all'acquisto di armi, equipaggiamento e per gli stipendi di quelli che stanno a tempo pieno con Paz y Justicia".

Però vi erano proteste perché l'uso di quei soldi non era affatto chiaro. "La gente cominciò a chiedergli conto, a ricordargli che nell'ottobre dell'anno scorso aveva ammazzato Emiliano Martinez Pérez, dopo avergli chiesto cinquemila pesos per lasciarlo tornare a Masojá Grande e permettergli di entrare nel gruppo, ma poi lo aveva ammazzato senza che nessuno lo denunciasse, e i soldi erano spariti". Santiago Sánchez aveva partecipato anche al sequestro e all'assassinio del maestro Domingo Vázquez Avendano, l'11 aprile scorso. Poi, dato che tutti i maestri della zona si erano spaventati e avevano abbandonato le scuole, la gente aveva incolpato Sánchez della cosa.

E' per tutto questo, continua il racconto, che "il comandante Santiago Sánchez è stato giustiziato il 21 luglio. E' rimasto steso per terra, abbracciato alla sua arma. Poi quelli che lo hanno ammazzato hanno detto che gli assassini erano i catechisti, ma non è vero, perché se fossero stati loro gli avrebbero tolto l'arma e l'avrebbero infilzato con il machete, come fanno loro".

Alla vigilia del fatto, aggiungono i tre, era stata convocata una riunione dei delegati di Paz y Justicia. Su 105, ve n'erano solo 35: "Tra gli altri, otto o dieci militari e poliziotti in borghese. Gli altri dirigenti del gruppo non si sono presentati perché dicevano di non voler più partecipare a stupri di donne, un giorno o l'altro avrebbe potuto toccare alle loro mogli e figlie, come è successo con la sorella di uno di loro, che furono obbligati a consegnare perché dicevano che era una spia e se non gliela avessero data tutta la famiglia si sarebbe resa colpevole di tradimento, li avrebbero ammazzati tutti".

I delegati che hanno disertato la riunione lamentavano anche di essere stanchi di fare la guardia tutti i giorni sui sentieri, di andare nelle comunità dei catechisti a sparare e a provocare. "Dicevano che non avevano più tempo di lavorare, che i campi non producevano e che erano alla fame". Ma, soprattutto, puntualizzano i tre ex membri di Paz y Justicia, "le cose non funzionavano perché i comandanti principali non se la passano affatto male, al contrario: prima nella zona bassa di Tila (dove il dominio di Paz y Justicia è quasi totale) solo tre famiglie avevano una camionetta e ora quasi tutti i dirigenti hanno la macchina e si sono costruiti case di cemento". Gli intervistati, quasi tutti indios dell'etnia chol, hanno mostrato una lista delle persone che negli ultimi mesi si sono costruite una casa, con tanto di dimensioni e caratteristiche. Una situazione che considerano offensiva perché "oltre l'80 per cento degli abitanti della regione vive in baracche di legno e lamiera".

Affermano che, per esempio, nella comunità El Limar "quelli che si sono pentiti, che stanno uscendo dal gruppo, sono i più anziani. Erano loro la base principale di Paz y Justicia. Ora restano solo i più giovani". "Tutti i problemi sono stati provocati dal governo. Sono arrivati i poliziotti, l'esercito, hanno portato armi e ora con queste armi ci stiamo scannando tra di noi", si lamentano i tre, che sono tra i pochi che sono riusciti a fuggire dalla zona nord del Chiapas.

Nella comunità El Crucero, porta d'entrata alla zona bassa del municipio di Tila, esistono un cimitero e un carcere clandestino, dove vengono puniti quelli che vogliono disertare: "Quando qualcuno non è d'accordo, gli dicono 'Ti portiamo al Crucero'. Questo vuol dire la morte. La gente non ce la fa più, c'è molta paura", affermano. "Anche qualcuno tra noi è stato legato nel cimitero. Ci hanno tenuto lì vari giorni, prima che riuscissimo a convincerli".

E le autorità non sanno niente di queste cose? Perché non le denunciate? "Le autorità lo sanno benissimo, ma i problemi sono stati provocati proprio dal governo. Non solo non fanno niente, ma molte delle azioni contro la comunità sono condotte da loro. Se si vuole che le due parti, i catechisti simpatizzanti degli zapatisti o dei perredisti (Prd, partito di sinistra) e quelli di Paz y Justicia, si siedano a trattare e si mettano d'accordo, l'esercito e la polizia devono ritirarsi".

Malgrado il regime di terrore in cui vivono, i tre dicono che alcuni di loro sono riusciti ad abbandonare il gruppo paramilitare. "Nella comunità El Limar, Sebastián Vázquez Vázquez e altre 70 persone, tutta gente anziana, sono riusciti a uscirne. Lui era uno dei capi, poi si è pentito. Ma c'è chi gli rimprovera ancora di aver dato all'esercito cento ettari per farci una base militare, quando erano terre della comunità". "Ma non vogliamo che i soldati rimangano nella comunità - concludono i tre - perché ci sono troppi abusi, prostituzione, azioni contro la Chiesa cattolica, figlie nostre che restano incinte, perdita delle tradizioni. Non vogliamo più che succedano queste cose".

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