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Rivista Italiana di Geopolitica
Dossier Messico

La libertà del Chiapas passa per Città del Messico.

Subcomandante Marcos, leader del movimento zapatista del Chiapas.
Intervista di Raffaele Crocco

Che cos'è il Chiapas? Perché proprio laggiù, nello Stato più selvatico del meridione messicano, appoggiato al Guatemala di cui è naturale completamento, il 1° gennaio 1994 è esplosa la rivoluzione più atipica di questo secolo, l'unica in grado di rimettere in moto un internazionalismo che solo la Spagna del 1936 era riuscito a far nascere?

Le ragioni sembrano essere racchiuse in cinque secoli di rapporti difficile fra il potere centrale - rappresentato prima dal viceré spagnolo e poi, dall'indipendenza del 1821, dal governo repubblicano di Città del Messico - e gli indios, costretti a vivere in condizioni impossibili, al limite della denutrizione e in comunità etniche che, via via, sono andate sempre più chiudendosi in loro stesse per salvare la propria appartenenza culturale.

Le conseguenze di questo lento degrado, si leggono nelle più recenti statistiche elaborate dall'Istituto de Statistica e Informatica, datate 1990. Freddamente, i dati che fotografano il Chiapas alle soglie del Duemila, con la sua popolazione di circa 3 milioni e mezzo di persone, distribuita su una superficie di 78 mila kmq (un quinto dell'Italia), analizzano le ragioni della crisi.

Rivelano, ad esempio, che quasi il 60% di chi lavora si occupa di agricoltura. A livello nazionale, nello stesso settore è impiegato solo il 22% dei lavoratori. Fra i chiapanechi occupati, più del 60% riceve meno del salario minimo, contro il 27,7 % che si trova nelle medesime condizioni a livello nazionale. È da tener presente che per salario minimo si intende ''il denaro indispensabile alla sopravvivenza quotidiana", come spiegano i sindacalisti messicani, perché non esiste, in realtà, una somma prestabilita e garantita da norme o contratti di categoria.

Ancora, in Chiapas il 30% della popolazione con più di 15 anni di età è completamente analfabeta e solo il 23% ha avuto un'istruzione postelementare. Nella rimanente parte della Federazione messicana, questi indicatori si fissano rispettivamente sul 12,4% e sul 43,4%, fornendo un'immagine ben diversa del paese.

Le difficoltà dello stato chiapaneco emergono anche dall’indagine sulla situazione delle case, con indicatori decisamente sfavorevoli. L'ultimo censimento della popolazione e delle case voluto dal Governo messicano, l'undicesimo della storia della repubblica centroamericana, datato anch'esso 1990, rivela che in Chiapas il 41% delle abitazioni non ha impianti idrici. Il 75% non ha drenaggio, il 33% e senza energia elettrica e nel 62% delle case l'unico combustibile utilizzato per cucinare è la legna. Nel 49% dei casi, poi, non esiste pavimento e 37 alloggi su 100 sono costruiti senza utilizzare materiale solido per le pareti, così come solo il 14% possiede un vero tetto.

Molti problemi, insomma, amplificati dalle caratteristiche rurali del territorio. I 3.415.485 abitanti che risultano nel censimento erano, nel 1990, distribuiti in 16.422 città o villaggi. Di questi solo 13 avevano una popolazione superiore ai 15 mila abitanti. Inoltre, la concentrazione indigena - ben più di un milione di persone - è la più alta del paese, tanto che il 27% degli abitanti conosce almeno una lingua india ufficiale. A livello nazionale le medesime stime si fermano al 7.6% e al 16,5%.

Una situazione di questo genere porta naturalmente con sé le difficoltà con un sistema sanitario incapace di modificare la tendenza all'alta mortalità e alla bassa aspettativa di vita. Secondo i calcoli effettuati dal Sistema nazionale per la salute, nel 1993 la malaria ha avuto in Chiapas un'incidenza dieci volte superiore al resto del Messico, così come il colera è stato 6.1 volte più presente, il tetano neonatale 3,7 volte e la febbre reumatica 2,9 volte maggiore. I casi di tifo e tubercolosi sono stati, invece, il doppio. I dati snocciolati dalle statistiche rivelano che 155 bambini su 100 mila abitanti muoiono ogni anno di diarrea e 23 persone su 100 mila vengono uccise dalla denutrizione. Tutto ciò porta ad un'aspettativa di vita di 49 anni, contro i 52,4 del messicano di altre regioni.

La rivoluzione avviata dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) il 1° gennaio 1994 ha trovato terreno fertile in questa situazione. Da dieci anni, da quando cioè - come ha spiegato più volte il subcomandante Marcos, capo militare dei rivoluzionari - da organizzazione clandestina urbana divenne nucleo rivoluzionario alla macchia, gli uomini dell'EZLN si preparano alla rivolta. La scelta della data, 1° gennaio con fu casuale. Quel giorno entrava in vigore il Trattato di Libero Commercio (Nafta) fra Canada, Stati Uniti e Messico. L'accordo avrebbe spostato l'asse economico del Messico, sino ad allora paese ad economia protetta, trasformandolo in nazione aperta agli scambi e agli investimenti stranieri. Proprio questi ultimi preoccupavano l’EZLN. Gli statunitensi erano pronti a intervenire pesantemente in Chiapas. Nel mirino delle società statunitensi c’erano i giacimenti petroliferi e di uranio della Selva Lacandona, rilevati da esperti nordamericani nella prima metà degli anni Novanta.

La reazione di Città del Messico, con il tacito assenso di Washington, all’attacco zapatista fu dura. Il subcomandante Marcos, con una colonna di circa duecento uomini, aveva occupato San Cristobal de Las Casas, città a novanta chilometri dalla capitale dello Stato, Tuxtla Gutierrez. Altre colonne operavano nei municipi di Ocosingo, Las Margaritas, Altamirano. Gli scontri durarono 15 giorni, con punte altissime ad Ocosingo. Poi, gli zapatisti si ritirarono, abbassando il livello militare del conflitto e costringendo l'allora presidente Salinas de Gortari, grazie a una campagna internazionale ben organizzata e all'aiuto delle associazioni per il rispetto dei diritti umani, ad accettare una tregua.

Cosa chiedevano - e chiedono a tutt'oggi - gli zapatisti? Due, sostanzialmente, sono le richieste contenute nel proclama dal titolo “Tierra y Libertad” lanciato con la dichiarazione di guerra e che si richiama direttamente al programma rivoluzionario varato da Emiliano Zapata nel 1911. Da un lato vogliono che la Costituzione sancisca i diritti degli indios, determinandone l’autonomia politica e amministrativa e rivalutandone, attraverso l'insegnamento dei loro dialetti nelle scuole, la cultura. Contemporaneamente, chiedono la democratizzazione reale del paese, uscendo dal tunnel creato dall'ininterrotto potere del Partito rivoluzionario istituzionale (PRI), al governo dal 1921.

Sono obiettivi che toccano i nervi scoperti del potere messicano, fondato sulla forza dei latifondisti, che sfruttano il lavoro degli indios e dei campesinos, e sull'immobilismo del sistema. Il cambio della guardia alla presidenza, con l'elezione di Ernesto Zedillo nel novembre del 1994, non portò a nessun miglioramento. Zedillo, anzi, fu suo malgrado un protagonista negativo. La Borsa di Città del Messico - per la pressione esercitata dalla finanza statunitense, dicono gli osservatori - crollò verticalmente nel dicembre dello stesso anno, mettendo a nudo i limiti della politica economica praticata da Salinas de Gortari. Gli investitori stranieri se ne andarono, precipitando il paese nella crisi. Il peso, la moneta nazionale, passò in pochi giorni da un cambio di tre a uno con il dollaro a un drammatico sei a uno, diventato otto a uno nell'ottobre del 1996. Affamato di denaro, Zedillo ottenne un finanziamento da Washington nel gennaio del 1995. Il prestito venne concesso, condizionandolo, ufficiosamente, alla sconfitta definitiva degli zapatisti. Per questo, nel febbraio dello stesso anno, Zedillo, lanciò una grande offensiva militare, che costrinse l’EZLN ad abbandonare parte del territorio controllato, ma che si concluse sostanzialmente con un nulla di fatto.

Il subcomandante Marcos e i componenti del Comitato indigeno Clandestino (CCRI) - di fatto il governo zapatista - non vennero catturati. L'iniziativa di Zedillo portò, invece a un rinnovato interesse internazionale per la Rivoluzione. Tra marzo e luglio si formarono alcune ''brigate internazionali”, composte da giovani italiani, spagnoli, francesi, tedeschi e statunitensi, che si assunsero il compito di “proteggere”, con la loro presenza fisica nella selva, gli zapatisti dall'esercito. Contemporaneamente, alcune organizzazioni non governative iniziarono a operare sul territorio, nonostante l'opposizione armata delle guardias blancas, l’esercito privato dei latifondisti.

Zedillo, su pressione anche del vescovo di San Cristobal, Samuel Ruiz Garcia, fu costretto a cedere. Varò la “legge di rappacificazione nazionale”, che consentiva movimenti liberi, seppur territorialmente limitati, ai capi rivoluzionari e, soprattutto, avviava i colloqui di pace di San Andres con la costituzione del comitato governativo per la pace (COCOPA). Un anno e mezzo di discussioni, cui Marcos non ha partecipato direttamente, ha portato solo a un'intesa sulla questione culturale alla fine del 1995. Il Governo, per altro, ha totalmente disatteso l'accordo e nel luglio del 1996, alla vigilia dell'incontro intercontinentale contro il neoliberalismo convocato da Marcos nella Selva Lacandona - e che ha visto partecipare tremila giovani e intellettuali di tutto il mondo - l’EZLN ha abbandonato il tavolo. Dal 12 al 15 ottobre, al Centro culturale El Carmen, a San Cristobal, una lunga trattativa fra Marcos e la Cocopa, mediata dall'organizzazione capeggiata dal vescovo Ruiz (Conai) ha riaperto il dialogo. Nel gennaio di quest'anno, infine, i negoziati si sono nuovamente interrotti, aggravando ulteriormente la tensione.

Il cammino per la pace appare lungo e complesso. Marcos dice che bisogna sconfiggere il potere di Città del Messico per abbattere le caste in Chiapas e ridare dignità agli indios. Ma le caste sostengono il potere centrale e difficilmente vi sarà una rottura fra loro. L’EZLN, intanto, pensa a come trasformarsi in movimento politico, appoggiato da parte della “società civile” messicana, che ha dato vita al Fronte Zapatista di Liberazione Nazionale (FZLN), di fatto il braccio politico dell'EZLN. L'obiettivo è affrontare le elezioni amministrative di quest'anno con la possibilità di abbattere il monolite rappresentato dal PRI. Sempre che le armi non tornino a far sentire prima la loro voce.

Da cinque giorni è chiuso in pochi locali dipinti di bianco. Non è uomo da stanze chiuse, il subcomandante Marcos. O almeno no lo è più. Dodici anni passati nella selva lo hanno addestrato a stare all'aperto, a rifiutare in qualche modo gli spazi limitati. “Ma i doveri di un capo militare”, dice ''sono anche questi, soprattutto in un momento tanto difficile”. Così, masticando la vecchia pipa sempre accesa, Marcos si sottopone al rito dell'intervista, sedendo dietro un semplice tavolo in legno, foderato con della stoffa verde.

Limes Molti anni fa, Arafat arrivò all'assemblea dell'ONU stringendo il fucile in una mano e un ramoscello d'ulivo nell'altra. Marcos sembra fare lo stesso: offre la pace mostrando di impugnare ancora le armi e facendo capire di essere pronto ad usarle. C'è una similitudine, pare...

Marcos Forse, ma nel caso dell’EZLN è importante capire che senso hanno avuto le armi per la nostra rivoluzione. Altrettanto importante è capire che tipo di pace stiamo cercando. Noi non ci siamo solo per conquistare lo spazio che ci serviva per farci ascoltare, per dire “siamo qui e non meritiamo di essere dimenticati, i senza terra nel mondo”. Sino a quando questa terra, questo nostro posto sul pianeta, non ci verrà riconosciuto dal governo, messicano, le armi continueranno a parlare. Quindi, non cerchiamo di sostituirci a qualcuno, di governare. Più semplicemente vogliamo quella che molti nostri compagni chiamano una “pace nuova”, che si trasformi per gli indigeni nel riconoscimento che sono esseri umani, che non vanno aiutati o puniti per come si comportano, ma con diritti e doveri come tutti i cittadini di questo paese. In Messico gli indios non sono mai stati visti come uomini. Per tradizioni sono o oggetto di interventi umanitari di una qualche organizzazione o “ricchezza turistica”, folcloristica.

Limes Il 1° gennaio 1994, lei sosteneva che la rivoluzione si sarebbe fermata solo una volta raggiunta Città del Messico...

Marcos L'11 ottobre del 1996 eravamo là, assieme alla comandante Ramona per il Congresso degli indios. Quello che intendevo allora, però, è che era necessario arrivare nel cuore politico del paese. Di fatto, già il 2 gennaio 1994 eravamo nella capitale, grazie alla stampa e alla televisione che raccontavano ciò che stava accadendo quaggiù. Le nostre immagine erano ovunque. Ma il problema, qui in Messico, è che quello che non arriva al distretto federale, alla capitale, non esiste politicamente. Inoltre, ci serva ribadire che il movimento zapatista è si preminentemente indigeno, ma aspira ad essere una formazione nazionale. La presenza di Ramona a Città del Messico lo scorso ottobre testimonia tutto questo. Nei giorni precedenti a quel viaggio, solo la possibilità che lei potesse arrivare là aveva mobilitato migliaia di persone. In più, inviando Ramona abbiamo ricordato al Presidente Zedillo e al PRI che quello che sta dietro allo zapatismo non è solo una forza armata, ma una popolazione indigena invalida, inferma, piccola e per questo invincibile. Questo è il grande paradosso di quel viaggio.

Limes Però ora dietro l’EZLN non c'è solo questo. Ora c’è anche la cosiddetta ''società civile”, che era sconosciuta, come fenomeno, in Messico...

Marcos Era apparsa sporadicamente, con la nascita del cardenismo o dopo il terremoto del 1985. Ora c'è la possibilità che si sviluppi. Vorrei spiegare perché la definiamo “società civile”. Le ragioni sono due. La prima è che non appartiene alla classe politica, a un partito. La seconda è che non ha un'etichetta. Non stiamo parlando, insomma, di campesinos, di operai o di impiegati. È un insieme di tutto ciò, esiste la speranza che questo “zapatismo civile”, non armato e urbano si incontri con il nostro “zapatismo di montagna e di selva”. Insieme credo possano costruire una nuova forza politica che segni la storia del paese, portando verso la democrazia. Credo anche che, se questo avverrà, sarà importante per tutto il mondo.

Limes Nonostante questo appoggio esterno, però, la situazione del Chiapas non sembra cambiata rispetto al 1994. Continuano ad esserci problemi di povertà diffusa, di scontro sociale. Il latifondismo, con il suo braccio armato, penso alle guardias blancas, domina sempre la scena...

Marcos L'analisi della situazione mi porta a dire, credo con ragione, che la lotta che abbiamo iniziato due anni fa non può essere solo regionale. La struttura del potere in Chiapas ha a che fare con il possesso della terra. Questo ha creato un potere extra istituzionale, rappresentato dagli eserciti privati dei latifondisti, quelli che vengono chiamati guardias blancas. Questo è il supporto reale al potere centrale nazionale. Senza di loro, senza i latifondisti, il governo federale non può operare in Chiapas, si frantuma. È altrettanto vero, però che i latifondisti esistono solo grazie all'appoggio che ricevono dalla capitale. Per modificare la situazione quaggiù, quindi, siamo costretti a tentare di cambiare la struttura del potere centrale. Stiamo parlando di una vera rivoluzione, che equivale a portare il paese finalmente verso la democrazia nazionale. Sarebbe un cambiamento radicale, che modificherebbe i rapporti di forza qui da noi.

Limes Il quadro interno è chiaro. Ma lo zapatismo ha una forte valenza internazionale. In Chiapas arrivano centinaia di volontari internazionali per appoggiare la vostra lotta. Questo vi porta a pensare che il vostro sia un modello rivoluzionario esportabile?

Marcos No, assolutamente. Noi non pensiamo che il nostro sia un modo da seguire o una nuova dottrina politica o ideologica, sebbene, dopo il febbraio del 1995, abbiamo avuto una grande visibilità esterna. Fu in quel momento che scoppiò quest'internazionalismo, soprattutto in alcuni paesi europei, cioè l'Italia, la Spagna e la Germania. Iniziammo a confrontarci con molta gente che arrivava qui a offrire il proprio aiuto, lavorando a progetti specifici o semplicemente dicendo “sono qui”. Alcune volte parlando con loro non capivo che cosa li avesse spinti ad attraversare il mare e il paese per infilarsi in un angolo della selva, a contatto con una popolazione indigena che non è in grado di comunicare, perché parla una lingua differente. Quei ragazzi mi spiegarono che lo zapatismo aveva azionato una specie di sveglia interiore che credevano spenta, rispetto a speranze, sogni e desideri di una società migliore. In pratica, la nostra rivoluzione aveva rinnovato un ricordo. Aveva ricordato a tanta gente, in Europa e in Nord America, che vale ancora la pena lottare. Da allora, il modo in cui questa gente si relaziona alla rivoluzione zapatista è cambiato. Quelli, ad esempio, che vivono più a contato con gli indios, negli accampamenti, sono gli italiani. Non appartengono a una formazione politica o a un partito. Sono giovani che cercano di capire, di imparare dagli indigeni per portare poi nel loro paese, in Italia, ciò che hanno appreso. Sono certo che loro sanno perfettamente che lo zapatismo non è un modello economico-politico da seguire pedestremente. Ognuno, poi, deve trovare la propria via per lottare.

Limes Lei parla di Italia, di Italia, di Europa. Cosa succede con altri paesi latinoamericani?

Marcos Nulla o quasi e questo è strano. È dall'Europa e dal Nord America che ci arriva solidarietà. Solo ora qualche paese del Sud America si sta avvicinando: penso a Uruguay, Cile e Argentina. Con i paesi del Centro America, invece, non abbiamo alcun tipo di rapporto.

Limes Vi sono zone del Chiapas che riuscite più o meno a controllare, nonostante le pressioni dell'esercito. Siete riusciti a sperimentare un diverso modello sociale ed economico in queste aree?

Marcos Sì, ci siamo riusciti. Bisogna tenere presente che prima dello zapatismo le comunità indigene, per sopravvivere, hanno continuato la linea naturale della loro storia. Questo si è tradotto per secoli in una tenace resistenza alla colonizzazione. Ogni comunità, ogni villaggio viveva chiuso in se stesso, senza alcuna relazione con i vicini. Erano quasi piccoli Stati. Quando è arrivato lo zapatismo si è creata la prima rottura. Si iniziò ad avere una comunicazione fra le comunità e questo portò a sviluppare una resistenza regionale, prima unendo i vari villaggi della medesima etnia, poi fra etnie differenti.

Limes Tutto questo prima del gennaio del 1994...

Marcos Certamente, stiamo parlando dei dieci antecedenti. Poi arrivò la guerra e l'offensiva del febbraio del 1995. In quel periodo vi fu un altro grande cambiamento, perché le comunità, che già avevano scelto la resistenza armata, dovettero sviluppare nuove forma di vita per resistere alle pressioni dell'esercito federale che era entrato nella selva. Direi che questi cambiamenti si possono riassumere in due punti. Da un lato vi fu la ricerca di aiuto da parte delle organizzazioni non governative nazionali e internazionali, per poter tenere vivi i progetti di sviluppo. Dall'altro si iniziò a controllare molto di più l'aspetto comunitario, cioè la gestione collettiva delle risorse. Il governo indigeno diventò sempre più collettivo, condiviso, in modo da garantire che all'interno delle comunità non vi fosse squilibrio, cioè che la povertà di alcuni non significasse la ricchezza di altri. In questo modo, poi, è stato possibile far si che gli aiuti venissero equamente distribuiti. Cosi si è andato sviluppando un modello alternativo a quello di governo. Prendiamo l'aspetto economico: nelle comunità, ora, va crescendo la produzione collettiva, a scapito di quella individuale.

Limes Qual è, oggi, il rischio maggiore che corrono le comunità indigene?

Marcos È la perdita d’identità, l'assassinio della loro cultura. L'offensiva del governo si sta concentrando esattamente su questo, e la presenza dell'esercito, cosi massiccia, tende a creare una situazione psicologica ideale per premere sugli indigeni. Un esempio per tutti: la prostituzione è arrivata anche qui. Vi sono ragazze indigene, oggi, che si prostituiscono. Era un fenomeno totalmente sconosciuto, prima della guerra. Le donne indigene non lo avevano mai fatto e questo, con il contemporaneo diffondersi dell'alcol, ha fratturato le comunità. C'è qualcuno, ora, che all'interno dei villaggio diventa più ricco di altri. Inoltre, la prostituzione rompe uno schema secolare. La donna abbandona i figli, il marito, cosa impensabile nella loro tradizione. La cultura indigena, anche a causa di questo, rischia di andare alla deriva.

Limes Da San Cristobal, in ottobre, sono arrivati segnali confortanti per la ripresa di un dialogo di pace che sembrava irrimediabilmente perduto. Cosa accadrà, ora?

Marcos Noi abbiamo una serie di richieste minime per riallacciare davvero il dialogo. La prima di queste è che il governo diventi responsabile, ci prenda sul serio. Non deve accontentarsi di firmare fogli e accordi. Deve prendere impegni precisi e mantenerli. Esiste ancora il problema dei prigionieri politici e c'è da rispettare l'intesa raggiunta nel 1995 sulla cultura indigena, fino ad oggi totalmente ignorata sul piano operativo dal Presidente Zedillo. Trovando soluzione a queste situazioni, credo vi siano concrete possibilità per riprendere i contatti. Però, e questo è importante, le comunità indigene devono avere l'impressione che davvero i dialoghi saranno diversi, più seri. Altrimenti siamo destinati al fallimento.

Limes In Italia e in Europa non abbiamo ben capito cosa sta accadendo con questa nuova organizzazione rivoluzionaria, l'ERP (Esercito Proletario Rivoluzionario) che opera in Guerrero e Oaxaca. C'è un'origine comune con lo zapatismo?

Marcos No, le radici sono completamente differenti. L’EZLN è un'organizzazione politico-militare urbana, piccola, che si è trasferita nelle montagne del Sud-est messicano e lì si è trasformata, diventando un gruppo indigeno. L’EPR è invece nato dalla fusione di varie organizzazione armate. Il processo è iniziato dopo gennaio del 1994, giungendo a termine qualche mese fa. I loro progetti sono completamenti diversi dai nostri. Loro vogliono prendere il potere e la lotta armata è lo strumento che intendono utilizzare per raggiungere questo obiettivo. Noi non vogliamo il potere scegliamo la parola e la politica come strumento di lotta. Le armi ci sono servite solo per conquistare uno spazio, per diventare visibili.

Limes Un'altra cosa che non si capisce bene è l'atteggiamento del governo degli Stati Uniti in questa rivoluzione. Si sa che le grandi compagnie nordamericane volevano investire milioni di dollari in Chiapas, a partire dall'entrata in vigore del Trattato di Libero Commercio, attratte soprattutto dal petrolio della Selva Lacandona...

Marcos In Chiapas, nella zona zapatista, c'è un grande giacimento di petrolio, scoperto da una società nordamericana nel 1993. Lo tennero segreto, non parlandone nemmeno con il governo messicano. La scommessa, per loro, era di arrivare per primi con l'inizio del Nafta. Non si tratta quindi di investimenti già fatti dagli americani, ma di denaro che intendevano impiegare a partire dal gennaio del 1994. La cosa più notevole, che conosciamo solo da poco però, è che mentre esploravano per cercare petrolio, incontrarono qualcosa di più importante: l'uranio. L'abbiamo saputo da un ingegnere nostro alleato, qualche mese fa. Ovviamente, gli statunitensi non dissero nulla. È chiaro che quando comparimmo noi creammo problemi, soprattutto perché le comunità indigene iniziarono a resistere, a rifiutare i progetti delle società del Nord America. Questo creò loro qualche problema, dato che avevano intenzione di eliminare gli indigeni dalla zona o trasferendoli altrove oppure proletarizzandoli.

Limes Un piano che la rivoluzione ha bloccato completamente...

Marcos Chiaro, non si aspettavano di trovare gli indios armati e decisi. Washington, a quel punto, si è trovata con le mani legate. I governanti statunitensi non potevano attaccarci ufficialmente, perché non avrebbero avuto l'appoggio dell'opinione pubblica, che ci guarda con simpatia. A quel punto hanno scelto di fare pressioni economiche sul governo messicano. Pensiamo al crollo della Borsa di Città del Messico sul finire del 1994. Fu creato ad arte per mettere in ginocchio la fragile economia del paese. Gli Stati Uniti ci offrirono poi un prestito enorme, in cambio della nostra testa. È così che si spiega la grande offensiva voluta da Zedillo nel febbraio del 1995. Gli Stati Uniti, per altro, lo appoggiarono anche inviando elicotteri antiguerriglia, altre armi e molti consiglieri militari, tuttora presenti dalle nostre parti. Però accadde che esercito arrivò, prese il controllo di alcune zone, ma l’offensiva di fatto non ebbe successo. Non ci sconfissero. Così, Zedillo dovette rassegnarsi a trattare, anche se il governo di Washington ha aumentato il numero di consiglieri militari e continua a fornire armi. Senza dimenticare il lavoro dei servizi segreti. Per loro è fondamentale eliminarci, per poter prendere l'uranio, ma possono solo dare un aiuto “coperto”, per non rischiare l’impopolarità.

Limes Da tempo si parla di una trasformazione dell’EZLN in un movimento politico o in un partito. Come potrà accadere, quali saranno i tempi di questa eventuale mutazione?

Marcos Non credo che sia possibile che l’EZLN si trasformi in partito. Vedo piuttosto la nascita di un movimento, nel nostro futuro. La soluzione, la strada da seguire è comunque all'interno dello stesso esercito zapatista, siamo noi che dobbiamo individuarla con chiarezza. Non siamo ancora pronti per fare politica. Cosa andremmo a dire alla gente? Quale modello potremmo proporre, quale Stato? Però, al di là di questi problemi, quando ci siamo sollevati nel gennaio del 1994, il nostro obiettivo non era solo la politica nazionale, ma internazionale. Crediamo con forza nella lotta al neoliberalismo e pensiamo che sia necessario una lotta globale, perché i problemi che crea sono planetari. Su questi filoni, con la consapevolezza di essere agganciati alla cultura indigena del Chiapas, stiamo cercando di costruire il nostro futuro.

(traduzione di Raffaele Crocco)

trascrizione dalla Rivista Limes a cura di: Ass. Solidarietà e Cooperazione Il Cerchio

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