MESSICO

Identità indigena e identità nazionale. Il caso Chiapas

YVON LE BOT *

Il Messico ha messo in opera fin dagli anni trenta e quaranta una politica indigenista tendente all'incorporazione degli indios in una posizione subalterna e alla loro assimilazione progressiva, politica che è poi svanita con il riflusso dello Stato nazionalista-populista negli anni ottanta e novanta. Includendo nella Costituzione, nel 1992, il riconoscimento del carattere multiculturale della nazione, il governo neoliberista di Carlos Salinas cercava solo di realizzare una riforma cosmetica, nell'anno in cui commemorava l'"incontro dei due mondi". Però negli ultimi decenni sono nate organizzazioni indigene favorevoli allo smantellamento progressivo della politica indigenista, che mantenevano una distanza dal potere ed erano portatrici di nuove rivendicazioni. Una di queste organizzazioni, la Cocei, promosse negli anni ottanta, nell'istmo di Tehuantepec, una esperienza di governo municipale che ha avuto ripercussioni nazionali. Ma è a partire dall'insurrezione zapatista del 1994, e in forma più precisa dopo la firma, nel febbraio 1996 a San Andrés Larráinzar, degli "accordi su diritti e cultura indigeni" tra il governo e l'Ezln, che la questione dell'autonomia indigena è divenuta tema di dibattito. Il governo ha mostrato forte reticenza ad applicare quel che aveva firmato e diverse personalità del potere hanno messo sul tavolo l'idea di uno statuto particolare per le popolazioni indigene. Questa posizione non è, d'altra parte, esclusiva di settori ufficiali. Il sociologo Roger Bartra è divenuto il portavoce degli intellettuali di sinistra che denunciano i pericoli di una pretesa "democrazia comunitaria" e che vedono nei governi locali fondati sugli usi e i costumi i germi di una futura violenza etnica. Bartra critica l'autoritarismo, il maschilismo e il fondamentalismo dei sistemi tradizionali di organizzazione delle comunità. Altri intellettuali, difensori dell'autonomia e della democrazia comunitaria, obiettano che l'autoritarismo, la violenza e il sessimo provengono dalla società dominante. Liberata dalle scorie del colonialismo e del neocolonialismo, la comunità ritroverebbe una autenticità precolombiana e un carattere armonico, egualitario e democratico. Un dibattito tanto fortemente ideologizzato risulta presto vano e sterile. E' necessario tirarsene fuori per osservare piuttosto gli attori presenti. Allora si vede che, lungi dal cercare di riprodurre o restaurare la tradizione (come danno a intendere Bartra e altri), i settori che dichiarano la democrazia comunitaria hanno già rotto con la vecchia comunità e sono risolutamente proiettati nella modernità. Sono, questi, i più forti oppositori dei caciques (i capi villaggio legati al potere, ndr.), dei fondamentalisti della tradizione spicciola inseriti nel partito di Stato, il Partido Revolucionario Institucional. Finora le espulsioni, i profughi forzati, il settarismo, in Chiapas, sono più responsabilità degli antizapatisti che degli zapatisti. Espulsioni, violenza, scontri tra neocattolici e evangelici, profughi e massacri contro i simpatizzanti dello zapatismo.

Questo non vuol dire che i "moderni" non abbiano agito contro i loro avversari. C'è in Chiapas una mancanza di cultura democratica, una tendenza a por fine ai conflitti ricorrendo all'imposizione, alla forza. Gli stessi zapatisti hanno perpetuato diverse forme di autoritarismo, dell'autoritarismo del consenso. Sfuggire alle inclinazioni comunitariste presuppone dar luogo a una pluralità di punti di vista, alle minoranze, agli oppositori; presuppone distinguere la sfera politica da quella sociale, culturale e religiosa (Marcos è particolarmente cosciente del pericolo di guerra civile che implica la fusione del politico e del religioso in un contesto in cui le divisioni religiose sono intense). Implica anche che essi si aprano alla società nazionale. Esiste il pericolo di riprodurre in Chiapas l'esperienza disastrosa delle Comunidades de población en resistencia del Guatemala, che hanno vissuto, alcune per quindici anni, ripiegate su se stesse, ostaggi (con o senza il loro consenso) della guerriglia e dipendenti dall'aiuto internazionale, praticando una sorta di comunismo primitivo, animate dal millenarismo alimentato da alcuni teologi della liberazione. Certo, la logica dell'Ezln è l'opposto, per vari aspetti, di quella della guerriglia guatemalteca. Però la tentazione di ritornare al Deserto della Solitudine, di cercare rifugio nella denuncia etica e in un millenarismo suicida è presente nel seno dello zapatismo. La ri-municipalizzazione prevista dagli accordi di San Andrés e messa in pratica dagli zapatisti risponde, all'inverso, a una logica istituzionale e di integrazione. L'antico municipio era una struttura che dominava, relegava, subordinava le comunità e le autorità indigene, includendole ma nella dipendenza. La creazione di "municipi autonomi" cerca, per esempio, di sottrarre i propri abitanti all'influenza degli abitati feudo dei ladinos (i messicani meticci, ndr.), dei caciques indigeni, delle istanze del Pri e del governo. Si cerca di emanciparsi da una dominazione che si caratterizza per il clientelismo, la frode, la corruzione, l'autoritarismo, il razzismo e la violenza. Ma anche si cerca di rifiutare l'abituale unanimità, religiosa o politica; di riconoscere la diversità e i conflitti e di permettergli di esprimersi, di rispettare il diritto di circolare e di risiedere. In altri termini, l'autonomia municipale deve essere oggetto di un contratto regionale e nazionale. Ciò che precisamente è in gioco nel dibattito attorno alle modalità di applicazione degli accordi di San Andrés.

Se la questione si pone in questa prospettiva, non c'è ragione di temere per l'unità nazionale. Al contrario: il riconoscimento di ciò che sempre è stato negato o calpestato (l'identità indigena), l'iniziativa data alla gente stessa e la ridefinizione delle relazioni tra comunità e municipio possono, come la riforma municipale in Bolivia, contribuire a integrare gli indios nella nazione senza che essi perdano la loro identità, e ricostruire così, su basi multiculturali ed egualitarie, l'identità nazionale messicana.

In Messico succede anche, nello stato di Oaxaca, dove coesistono quindici diverse etnìe, che i tre quarti dei municipi eleggano le loro autorità secondo i propri usi e costumi e che all'incirca il 70 per cento della popolazione sia governata da autorità indigene. Nei più di 400 municipi coinvolti, la "autodeterminazione comunitaria" si limita alla gestione degli affari locali, di terre e risorse comunali e della cultura. E' un apprendistato della democrazia che procede per tentativi, attraverso il confronto dei costumi con le norme nazionali e internazionali, e la trasformazione delle pratiche tradizionali per mezzo di questo confronto.

Lungi dal rappresentare un pericolo per l'unità nazionale, le rivendicazioni zapatiste, così come le esperienze condotte in Oaxaca, sono l'illustrazione dell'aspirazione formulata dagli indios: "Mai più un Messico senza di noi".

* scienziato sociale francese, autore di "Il sogno zapatista", pubblicato da Mondadori. Questo articolo è stato pubblicato da "Masiosare", supplemento domenicale de "La Jornada" di Città del Messico.



(tratto dal Manifesto del 12/4/98)

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