da La Jornada dell’11 giugno 1998

 

Editoriale

Chiapas: disprezzo per la vita?

 

Ieri, nel municipio chiapaneco di San Juan de la Libertad o el Bosque -a seconda che si utilizzi la denominazione ufficiale o quello che preferiscono i suoi abitanti- le autorità statali e federali hanno dato un’altra prova della loro determinazione di smantellare a qualsiasi costo, anche con la perdita di vite umane, i municipi autonomi stabiliti dalle comunità indigeni in ribellione di questo stato.

Gli argomenti legaloidi impugnati per giustificare la violenta incursione delle forze pubbliche nei villaggi di Chavajeval, Unión Progreso e nello stesso capoluogo municipale sono difficilmente sostenibili in un caso in cui, come succede in Chiapas, è rotto lo stato di diritto. A meno che non si desideri riattivare la guerra, non c’è ragione per applicare la legge in forma faziosa lasciando da parte l’esistenza di una ribellione indigena che ha già quattro anni e le cui motivazioni sono state riconosciute giuste da tutto il mondo, anche dall’Esecutivo federale.

D’altra parte non smette di richiamare l’attenzione che, in questa circostanza, le istanze statali di procura della giustizia abbiano attuato con un’inusuale rapidità per trasformare l’investigazione di un opaco fatto violento in pretesto per radere al suolo il municipio autonomo. Questa efficienza contrasta con i sei mesi passati dal massacro di Acteal senza che finora si sia conclusa un’indagine credibile e convincente.

Sorprende anche il balbettante comunicato ufficiale per mezzo del quale il governo di Roberto Albores Guillén pretende di spiegare i fatti e l’elusivo bollettino emesso al riguardo dal Ministero degli Interni, nel cui tono sembrava diluirsi la gravità delle morti. E’ inevitabile, di fronte al testo divulgato dalla Segob, evocare le prime reazioni ufficiali al massacro di Acteal, che spiegavano il crimine in funzione di "liti intrafamiliari" o "infracomunitarie". D’altra parte, in nessuno dei due documenti emessi ieri si menziona la necessità di investigare le circostanze in cui sono morti sei abitanti della località invasa e un agente delle forze pubbliche, ferite più di una dozzina di persone ed arrestate circa trenta. In entrambi i testi, la perdita di vite sembrava considerarsi come un fatto naturale ed inevitabile.

Nell’ambito chiapaneco, si ha l’impressione che il potere pubblico non ha interpretato la rinuncia come mediatore del vescovo Samuel Ruiz e la dissoluzione della Conai come ciò che sono, cioè come gravi segnali di allarme sulla decomposizione ed esplosività dello scenario statale, ma come una luce verde per mettere in ginocchio, attraverso la coercizione poliziesca e militare, le comunità insorte.

Nell’ambito nazionale risulta inevitabile ricordare che, alla fine della settimana scorsa, sono state cercate e mitragliate da truppe dell’esercito undici presunti guerriglieri a El Charco, Ayutla, Guerrero. Se fossero vere le versioni ufficiali, lì come a El Bosque, Chiapas, le morti sono state il risultato di una negazione ad arrendersi alle forze pubbliche, bisognerebbe ponderare sul fatto che, in cinque giorni, quasi una ventina di messicani avrebbero preferito morire che consegnarsi alle forze governative. Saremmo, quindi, in presenza di un gravissimo deterioramento dell’autorità dello Stato e di una severa erosione del patto sociale che dovrebbero suscitare la preoccupazione e la riflessione alle più alte sfere del potere. Ma c’è anche la possibilità che le morti segnalate in un caso o nell’altro, o in entrambi, siano state il prodotto di azioni premeditate di sterminio. Il sostentamento morale della nazione richiede che possano separarsi da essa.

La società deve esigerlo alle autorità. Abituarsi alle morti collettive è il primo passo verso la guerra e questa prospettiva nefasta deve essere sbarrata.

 


(tradotto dall'Associazione Ya Basta! per la dignità dei popoli e contro il neoliberismo - From: "si.ro" <si.ro@iol.it>)

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