Dal Proceso del 07 giugno 1998

 

Gli aggressori di Acteal e di altri luoghi sono comprati e degradati fino a perdere l’anima…

La teologia può solo essere di liberazione, non di schiavitù, a meno che non sia paramilitare: il vescovo Samuel Ruiz

 

Carlos Monsiváis

 

Affermare l’evidenza: "Il vescovo Samuel Ruiz è un personaggio molto controverso", sarebbe, a queste altezze, fermarsi per lo meno a metà strada.

Mai prima, nemmeno gli ecclesiastici così tenacemente criticati e diffamati (mai lo stesso) come il vescovo di Cuernavaca Sergio Méndez Arceo, qualificato dalla destra come il "Vescovo Rosso", avevano ricevuto un tale invio di analisi spietate, invettive e calunniose. Lo si accusa di "ambizione illimitata", di manipolare senza tregua gli indigeni, di essere il vero capo dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, di usare risorse di organizzazioni straniere per i suoi scopi, e tutto quello che si può pensare. Alti e medi funzionari del governo lo hanno criticato, il Ministero degli Interni è un ottimo spazio per la protesta contro la diocesi di San Cristóbal, e di tutti i dignitari cattolici che in un modo o in un altro partecipano alla politica, solo don Samuel Ruiz merita la segnalazione di "interventista". L’anticlericalismo è in auge, si resuscita con dedicazione esclusiva, e per lo meno dal 1994 la censura al vescovo Ruiz occupa uno spazio rilevante sulla stampa, la radio e la televisione.

A tutto campo... Il vescovo, necessariamente, dispone anche di ammiratori e seguaci dei partitari che lo vogliono come premio Nobel per la pace, dei convinti della sua qualità di degno successore di fra’ Bartolomé de Las Casas e di chi, forse filosoficamente, assicura "Chi ha questi nemici, avrà molto di buono". E al principio di tante "filíe" e tante fobie si produce un curioso equilibrio: nei mezzi informativi si tende a denigrarlo , nell’ambito nazionale lo si tiene in grande considerazione e la sua autorità morale si alimenta in gran misura della sua condizione polemica.

Di seguito, alcuni risultati di un dialogo con il vescovo Samuel Ruiz.

 

Di quando non c’erano eterodossi

Sono nato a Urapuato, nel 1924. A causa del conflitto religioso la situazione era molto tesa. In alcuni luoghi non c’erano lezioni nella scuole, ma nelle case private, anche in casa mia, tutto questo dopo mi ha provato che la Storia si fa, senza limitarsi alla semplice azione di "lì ci siamo" (...) Di questo tempo, la gente ricorda il crimine del parroco Martín Labers. Dava messa quando gli si è avvicinato un uomo con le mani sotto il cappello. Ha detto qualcosa al sacerdote, che si è abbassato, e in quel momento l’ha colpito. Mi raccontano che allora c’è stato un silenzio di terrore, e quando l’aggressore è uscito un signore l’ha agganciato con il bastone, l’aggressore è caduto e i fedeli si sono lanciati per farlo fuori.

Don Martín, moribondo, li ha consigliati: "Lasciatelo, abbiamo bisogno di sapere chi l’ha mandato". Ma la gente l’ha portato fuori dalla chiesa tirandolo dai piedi con la testa che sbatteva sul pavimento. E’ morto all’ospedale. Al cimitero l’ha portato il camion dell’immondizia.

Non c’erano eterodossi né grandi né piccoli nel luogo dove mi sono formato: una società unitaria, la presenza dominante della Chiesa, e la forte pietà del Bassofondo con l’Azione Cattolica, l’Adorazione Notturna, i Tarcisios...

Quelli dell’Adorazione si davano turni per pregare tutta la notte per chi non aveva una condotta corretta (...) Un giorno ho chiesto a mia madre l’origine del mio nome poiché non aveva precedenti familiari. Si è sorpresa:

"Non ti piace?". E mi ha spiegato: "Appena sposati tuo padre e io, abbiamo promesso che se il figlio fosse stato maschio lo destinavamo al servizio del tempio, come il profeta Samuel..."

...Nel seminario di León la disciplina era dura. Studiavamo latino, filosofia, teologia, etica, matematica, storia. Dei 100 che eravamo entrati ci siamo ordinati in 6. A Roma sono stato dal 1946 al 1952. Sono tornato per dare lezione al Seminario, sono stato canonico teologale, attenendomi come tutti alla Sana Dottrina (...). No nel mio caso, oltre agli autori hanno avuto grande importanza i professori. A volte come gli autori, l’inevitabile Hervé, scrittore di quattro volumi di Teologia dogmatica. Le biblioteche erano povere e dipendevamo molto da alcuni pozzi di saggezza: il canonico Nicolás Muñoz, il padre Sandoval, il padre Marquéz. Privava allora una visione del cattolicesimo che è cambiata radicalmente con il Secondo Concilio Vaticano verso una Chiesa partecipativa, con incidenza storica. E questo ha segnato il modo di essere e di pensare...

 

1960: l’arrivo a San Cristóbal

Se tento di semplificare, l’arrivo a San Cristóbal è stato per me affrontare una situazione totalmente nuova: gli indigeni, che erano i più isolati e i più bisognosi, davano maggior accoglienza alla parola di Dio: si è approfondita allora una pastorale con punto di vista indigeno, senza smettere si servire, come fino ad oggi, i meticci, solo che in molti di loro c’era una resistenza quasi organica, costitutiva a questa pastorale indigena, perché in diverse circostanze avevano un ruolo di sfruttamento.

Per esempio nel capoluogo municipale di Oxchuc, la quasi totalità dei meticci avevano cacciato dalle loro case gli indigeni; quindi per accedere alla conversione bisognava rendere tutto ciò che gli era stato rubato (...)

Come si è fatto questo? Un esempio. Una persona di San Cristóbal arriva in questo capoluogo con alcune cose da vendere; chiede a un indigeno di prestargli una stanza per vendere durante la festa di San Tommaso Apostolo; la famiglia è d’accordo e va a dormire in cucina. Finisce la festa, passano i giorni e il venditore non da prove di andarsene nonostante le insinuazioni della famiglia. Un bel giorno gli dicono: "Va bene, fratello, ti abbiamo prestato la casa, però adesso vogliamo viverci". E il venditore gli risponde: "Questa casa è mia", e gli fa vedere i documenti... Questo è stato un fenomeno generalizzato. I meticci si sono appropriati delle case degli indigeni. E uno di essi mi ha raccontato il modo in cui un giorno si sono ribellati per buttar fuori i meticci. Tuttavia, questi ultimi sono ricorsi all’esercito o, in ogni caso, a gente armata ufficiale per sottomettere e dominare i ribelli. Ci sono state altre spoliazioni ed altre ribellioni che, alla fine, i meticci non hanno più parlato con l’esercito ed essi stessi si sono paramilitarizzati.

Il razzismo era ed è terribile. Io stesso non lo notavo al principio. Era molto difficile che un indigeno che non parlava castigliano si avvicinasse a qualcuno. E se uno si avvicinava a lui, l’indigeno faceva finta di niente, non si sentiva degno di trattare con un meticcio non parlando spagnolo. Ho sentito che dicevano: "Io non vado con gente con ragione, io non so lo spagnolo". Il più grave di questa discriminazione è che abbraccia anche la Chiesa perché l’imposizione della cultura attraverso cui si professa la fede, era abbastanza discriminante. Allora un indigeno, per essere cristiano, doveva manifestarsi per mezzo della cultura occidentale e non attraverso i suoi propri valori, lingua ed altri. Questo finisce con il Concilio Vaticano II. Lì i vescovi africani lo segnalano con chiarezza: non si può impedire agli altri di esprimere la propria fede con la propria lingua ed i propri valori. Hanno diritto ad una Chiesa autoctona, cioè ad una Chiesa con le proprie risorse, i propri ministri, per far sì che professino la loro fede con i propri valori e la propria lingua. Sono sorte così le Chiese autoctone e si sono sviluppare, ma la discriminazione arriva ancora al grado in cui, se in una celebrazione religiosa sono diaconi indigeni che distribuiscono l’eucarestia, alcune persone preferiscono uscire dal tempio o cambiare di fila purché non sia un indigeno a dargli la comunione.

...Mi è servito tempo per rendermi conto della drammatica situazione degli indigeni: un indigeno era stato legato ad un albero e frustato perché non voleva lavorare più di otto ore; ad alcuni concedevano piccoli prestiti con interessi enormi, fino al 100% e quando l’indigeno non li poteva pagare, gli toglievano la sua casa, il suo terreno, e i suoi animali. Molti sono usciti dalle comunità verso la selva, in cerca della libertà e per porre fine al loro schiacciamento economico; era come l’esodo che ha lasciato la schiavitù d’Egitto per andare nella Terra Promessa... ma ora nella Terra Promessa della Selva. Lì è cresciuta una generazione costituita dal meglio delle comunità indigene: la gente più audace e visionaria.

...C’erano stai fatti come questo: nel 1966, alcune povere donne ci hanno raccontato piangendo come i loro familiari, tentando di recuperare le terre che gli erano state strappate, sono stati bruciati vivi di fronte ad esse e a tutta la loro famiglia; un altro indigeno è stato assassinato da un meticcio perché, non sapendo leggera, aveva ignorato un recente cartello che proibiva il passaggio per la proprietà di questi, nonostante il fatto che, tempo addietro, lì passava il sentiero che l’indigeno aveva percorso molte volte; allo stesso modo, all’accaparramento delle terre e dei lavori forzati; gli indigeni dovevano aggiungere anche il fatto di essere considerati come parte delle finche, in modo che, quando queste erano vendute, erano comprate con tutto e il lavoratori nati lì per generazioni

(...) A volte il padrone gli permetteva di coltivare qualche piccolo terreno, ma come rendita gli faceva pagare la metà del raccolto, oltre al lavoro che realizzavano per lui...

 

Dai catechisti alla teologia indigena

...Ti interessa sapere perché è così scarsa la rappresentanza indigena tra i dignitari cattolici e cosa rispondiamo alle accuse sul presunto ruolo sovversivo dei catechisti? Ti rispondo...

L’evangelizzazione nella Conquista ha portato, certamente, la parola di Dio, ma l’unico modo di esprimere la religione è stata la cultura occidentale.

Perché qualcuno entri in Seminario, deve aver compiuto studi elementari e forse anche medi, inaccessibili per la maggioranza delle comunità emarginate e, in più, dove questo si può fare, c’è ancora l’idea per cui gli indigeni non ne sono capaci. (...) Nonostante tutto, già in diverse parti abbiamo ministri o diaconi ordinati e chiaramente catechisti che hanno iniziato una preparazione più profonda. Non abbiamo ancora sacerdoti indigeni in senso stretto; cioè esistono sacerdoti indigeni ordinati, ma non sono stati formati nella propria cultura. Questo si inizia a fare adesso, anche se su questo aspetto affrontiamo nuove difficoltà di tipo culturale: nel mondo indigeno si considera uomo adulto solo chi ha avuto una minima esperienza nel reggere o dirigere il nucleo minimo della società: la famiglia. Se un individuo di 30 o 40 anni non è sposto, nella comunità lo si considera senza parola e un altro di 18 o 20 anni può essere considerato adulto, con parola, solo se ha la condizione di uomo sposato. Questo rende difficile la nascita di questo sacerdizio.

Per questo si sono formati molti catechisti. Ma è falso che essi sono entrati nell’EZLN. Quando l’EZLN stava reclutando, sono stai avvertiti:

"Fratelli, voi siete liberi, se volete: la violenza non è per noi il cammino cristiano, però se qualcuno pensa che così può e così deve essere, deve smettere di essere catechista, non può occuparsi in due attività". Questo non si applica solo al movimento armato, ma anche allo svolgimento di servizi ufficiali: un commissario di ejido, diciamo, entrando in carica, non può più essere catechista. Adesso il governo insiste nel localizzare catechisti ribelli da tutte le parti, ma non ci sono, poiché dal momento in cui sono entrati nel gruppo armato, a titolo individuale, hanno smesso di essere catechisti, visto che loro sono obbligati a offrire servizi a tutta la comunità. Abbiamo persino avuto conflitti con l’EZLN in alcune regioni perché ci siamo rifiutati di offrirgli ministri per il loro gruppo. Abbiamo detto: "No, i catechisti sono costruttori e servitori della Chiesa e della comunità, non di un gruppo determinato. Loro decidono, ma devono lasciare la loro carica di catechisti, soprattutto se il movimento a cui aderiscono propone la lotta armata, poiché non crediamo che questo sia il cammino della ragione, né la soluzione dei conflitti".

 

La cattedrale di San Cristóbal

...Nel febbraio del 1994, nella cattedrale di San Cristóbal si sono realizzati i dialoghi di pace. Mi si chiede con frequenza se la decisione di prestare la cattedrale per i dialoghi non sia stata rischiosa. Sì, certo, ma la proposta non l’abbiamo fatta noi, ma Manuel Camacho Solís, perché si esaminava l’aspetto della sicurezza; non si sapeva che comportamento aspettarsi dai diversi gruppi della società con i guerriglieri in città, che protezione trovare e dove ci sarebbe stata maggior sicurezza. Abbiamo pensato a Comitán, ad altri luoghi, si è persino fantasticato di Parigi...

Quando abbiamo deciso che doveva essere nel paese, e specificatamente in Chiapas, Manuel Camacho ha detto (eravamo nella casa pastorale): "Sentite, non si potrebbe fare qui?" Gli ho risposto di sì, certo, si poteva fare qui... E si è deciso ciò di cui poi alcuni si sono lamentati perché , naturalmente, questo fatto inusuale si è trasformato in un simbolo, ma è stato qualcosa di indispensabile. Solo che Dio non ci ha permesso di arrivare alla meta. C’era effervescenza, e noi eravamo sul punto di definire persino la liturgia della pace - pensavamo anche nella stessa partecipazione di Camacho -, quando sono arrivate le complicazioni, l’allerta rossa, l’assassinio di Colosio e tutta questa situazione complessa... Non ostante credo che noi abbiamo letto correttamente dal punto di vista cristiano ed evangelico questo invito del Signore a dar testimonianza universale della mediazione per la pace.

... Ebbene, la ribellione del 1994 è stata anche la conseguenza di un’effervescenza nazionale manifestatasi nel 1993 con il rifiuto a dodici governatori, per lo meno, e a candidati presidenti municipali, imposti in Chiapas, Jalisco, Zacatecas, Chihuahua, Durango, San Luis Potosí. Ci sono state persino irruzioni di gruppi armati che hanno occupato i municipi. In Chiapas 72 municipi sono stati occupati per non essere d’accordo con il sistema elettorale. E la stampa internazionale era attenta. Di colpo, gli indigeni hanno rivelato un’altra oppressione, l’oppressione culturale, e la proiezione mondiale di questa realtà ha fatto sì che aumentasse la coscienza e che emergessero nuovi attori: le donne, i neri, gli asiatici come soggetti di una trasformazione generale del sistema...

 

"Si cerca Samuel Ruiz"

Mi chiedi delle mie reazioni di fronte agli attacchi. Be pensa che, senza fare l’eroe né credermi eccezionale, da una parte sento queste aggressioni come naturali. Le vessazioni non iniziano nel 1994, ma nei periodi precedenti, all’oppormi alle ingiustizie. Per esempio, nel secondo anno del governo di Patricio González Garrido, questi ha emesso una relazione che, praticamente, era una dichiarazione di guerra diretta contro la diocesi per questioni relazionate con il controllo delle nascite, la depenalizzazione dell’aborto - politiche a cui ci opponiamo- e la difesa degli indigeni.

Questa campagna arrivava dal passato, con tutto e con i cartelli "Si cerca", in diversi luoghi (...) Un sacerdote di Toluca, che ho conosciuto per caso a Oaxaca, mi ha chiamato un giorno per telefono e mi ha detto: "Senta, qui ci è venuta, insieme ad un gruppo di tassisti, un’idea peregrina, però non ci prenda in giro. Vogliamo proporla per il Premio Nobel per la Pace". Gli ho detto: "Va bene, avanti, lanciate e vedremo a cosa si arriva, per lo meno ci sarà l’opportunità di parlare di ciò che si sta facendo in questa diocesi".

Questo è stato nel 1993, prima del conflitto, quando il libro di Luis Pazos si annunciava nelle stazione del Metro e esistevano già cartelli con la scritta "Si cerca".

... Quello che ci ha dato la forza, è stata l’impressionante catena nazionale ed internazionale di preghiere per il processo di pace, poiché dall’inizio del conflitto c’era molta gente che aiutava le comunità indigene o che si riuniva periodicamente per chiedere progressi nel processo di pace.

Questo è un fondo nascosto la cui forza non possono conoscere quelli che non hanno fede, che però è lì, sostenendo... Sappiamo che non basta la fede, e in effetti la gente che prega per la pace, solidale, scrive anche comunicati, invia aiuti o viene personalmente a dare appoggio umano agli indigeni.

... da molto tempo, la complessità dei problemi della diocesi è di una grandezza tale che ho invitato tutti a realizzare insieme il Piano Pastorale per la Diocesi. Qualcuno mi ha chiesto che gli comunicassi il piano, per eseguirlo ed io gli ho risposto: "Non si è capita una cosa. Io non ho capacità intellettuale, visto la complessità di questa realtà, per fare un piano d’insieme. O lo facciamo tutti o non c’è piano". Così, le decisioni sull’esercizio del pontificato o dell’Episcopato non ricadono solo sulla mia persona: le prende tutta la diocesi, e tutti siamo coscienti di quanto dobbiamo metterci: una parte di sofferenza. E’ stato molto doloroso vedere come si allontanano le persone ansiose di ingraziarsi con gli ambiti del potere, gente che non ci saluta più, senza alcun rifiuto da parte nostra...

 

L’indigeno sempre manipolabile

Sì, è vero quello che dici: i nostri critici insistono sulla condizione manipolabile dell’indigeno; credono che l’indigeno è incapace di capire per conto suo, che ha bisogno di un demagogo come il subcomandante Marcos o di un prete come Samuel Ruiz. Quello che è vero è che continua a vivere un po’ il mito del tempo della Conquista. Molto presto, il sistema genera un’ideologia che giustifica la dominazione, come quando gli europei discutevano se l’indigeno aveva l’anima oppure no, o se c’era chi nasceva per essere schiavo, come diceva Aristotele, e cose di questo tipo. Ancora molte persone non si rendono conto che in realtà alcune delle loro reazioni obbediscono a chi sta dietro di loro, e alla sconoscenza dell’indigeno. Per questo, quando mi parlano di Rigoberta Menchú, donna così straordinaria, rispondo: "Quello che voi ignorate è che ce ne sono migliaia di donne indigene così straordinarie come lei, senza l’opportunità di apparire in televisione, ma con una gran chiarezza mentale e con grandi valori umani". E questo lo dico non per svalutare Rigoberta, ma per enfatizzare che gli indigeni non sono inferiori, che hanno ideali saldi ed enormi capacità.

 

La teologia della liberazione e la teologia della violenza

... Mi chiedono sempre della teologia della liberazione e sempre rispondo che una teologia non liberatrice non merita il nome di teologia. Non c’è una teologia della schiavitù, perché Cristo è venuto a liberare l’umanità (...).

I profeti si sono detti chiamati dal ventre materno, ma l’apostolo Paolo ha chiarito che siamo stati chiamati da prima, da quando esiste Dio, per essere la sua immagine e costituire, quindi, la famiglia dei figli di Dio.

Tuttavia, purtroppo, se esiste una teologia del dominio che, sviluppata negli Stati Uniti, difende la legittimità della divinizzazione del mercato, della dominazione economica e ricorre solo ad immagini apocalittiche, come se quello neoliberista fosse l’ultimo sistema (...). Quello che si attribuisce alla teologia della liberazione è che ha una penetrazione marxista con i suoi concetti di lotta di classe, ma nessuno dei teologi della liberazione dell’America Latina ha un’impostazione marxista, ma partono dalla teoria dell’emarginazione che è alla base della spiegazione del fenomeno sociale. (...) La teologia europea, potremmo dire, è una teologia che viene dall’alto verso il basso, invece la teologia della liberazione la applichiamo alla realtà e nasce una rivoluzione: il cristianesimo latinoamericano che sceglie chi è oppresso. Se io, uscendo da qua, incontro un individuo prepotente che sta facendo a pezzi un bambino, non posso passargli davanti dicendo: "a me cosa interessa, magari è suo padre". Devo fare qualcosa, e se non faccio niente, smetto di essere umano, sto abbandonando la mia stessa dignità. Se non mi metto in mezzo o non chiamo la polizia, mi degrado come essere umano...

In relazione a quello che ha portato un governo a ribattezzare la teologia liberatrice come "teologia della violenza", credo sia stata solo l’ignoranza della teologia. I miei compagni della diocesi hanno detto che la teologia della violenza "era quella dei paramilitari", ed è così, perché stanno giustificando il crimine, non so fino a che punto sotto motivi religiosi.

Tempo indietro quello ce si faceva era un’invasione o un investimento ideologico per far credere che si lottava contro il male, che era il comunismo, che doveva essere eliminato. Adesso è diverso. Se si entra nel tema, consideriamo la preparazione che hanno ricevuto i paramilitari di Acteal: prima, sono state organizzate trasmissioni di video pornografici; dopo gli hanno portato donne per mettere in pratica quanto visto nei video... così, fino a distruggere la morale e trasformarli in individui senza anima. Questo spiega come arrivino ad uccidere i bambini nel ventre delle loro madri...

 

Acteal

Per quanto riguarda Acteal, non dimentico, per una reazione quasi di difesa della dignità del nostro paese, che non siamo gli unici. Questo non è una consolazione, però penso ai nazisti e al genocidio degli ebrei. Gli esseri umani, quando si degradano, arrivano agli estremi di questa natura. Nel massacro di Acteal, i moventi evidente sono stati il potere ed l denaro: la resistenza ad abbandonare il potere, attraverso il voto o in altro modo. Gli assassini sono stati comprati, gli hanno dato droga che li ha sconvolti. L’ intenzione era quella di infliggere agli oppositori un castigo definitivo, perché si aggredivano i rifugiati, gli sgomberati dalle loro comunità -ed Acteal non è l’unico luogo con fatti di questo tipo: ci sono 24 episodi simili, anche se non di questa importanza- si trattava di frenare questo movimento di difesa della dignità e di reclamo della giustizia. Ma mentre si uccideva gente innocente, un catechista straordinario –secondo quanto ci hanno riferito i testimoni- esortava i caduti, le donne e gli anziani a non odiare il loro nemico, a perdonarlo... Quando questo fratello si è avvicinato ad un bambino che cadeva, al fine di proteggerlo, ha ricevuto il colpo ed è morto perdonando chi commetteva questi delitti....

Le autorità che ricorrono a questi meccanismi inferiori volevano dare una freno al processo che si incamminava verso il Dialogo, poiché aveva anche tentato di fermare le aggressioni e il resto. L’appoggio delle classi superiori è ovvio; si tratta di tagliare la strada a questi progressi. Il ministero degli Interni mi ha fatto chiamare per farmi un’analisi della situazione e dirmi che noi provocavamo questa violenza. Il coordinatore Raúl Vera era già arrivato ed aveva già avuto le prime esperienze. Ho detto a Arturo Núñez: Che meraviglia questo giudizio, quando per trenta e passa anni non c’era mai stata un’accusa di questo tipo, e lo stesso vescovo Vera, essendo appena arrivato, percepiva già questa realtà e le sue dichiarazioni sono più energiche delle mie. Quindi Núñez mi ha detto che c’è un fenomeno psicologico di induzione del pensiero... Ed in questo momento mi sono fermato e gli ho detto: "Signor dottore, se parliamo di fantascienza, bene, qui finisce l’incontro". Già da allora ci si attribuiva la violenza ed è costato molto rompere l’isolamento della zona nord, far sì che entrassero gli osservatori, i giornalisti, ecc., fino a quando tutto questo è finito.

 

La Conai

... La formula meno aggressiva che mi è venuta in mente sulla CONAI è stata dire: Non ci può più essere un ponte tra le parti, né riuscire a far sì che una parte si sieda a negoziare; ha perso la sua forza di convocazione, il suo ascendente: non tanto per la nostra debolezza, ma per la mancanza di volontà di una delle parti, la più forte. Cosa fare? Per trasformare, bisogna fare pressioni sociali, azioni già esterne all’ambito della mediazione. Adesso abbiamo avuto una crescita nel capitale morale, nonostante i "fantocci" e cose simili. Dappertutto trovo gente sconosciuta che non si accontenta delle spiegazioni ufficiali , che rispetta ed ha fiducia nelle possibilità di andare avanti. (...) Per noi il modello è finito quando sono cambiate una serie di circostanze: è cambiata l’ubicazione dell’EZ, è cambiata la relazione nazionale ed internazionale dei movimenti, ed è cambiata un’altra serie di fattori che esigono un nuovo tipo di partecipazione, non solo dei presenti nello schema di San Andrés, ma molto più ampia che, di sicuro, si sta già preparando. Se una delle parti ha deciso di camminare da sola, non c’è più necessità di dialogo, perché si applicheranno gli accordi con un’interpretazione determinata, forzata. Così, la mediazione non ha più ragione d’essere, perché esiste per dare validità e credibilità a ognuna delle parti nel rispetto dell’altra, assicurando la convergenza nel processo di pace.

 

I protestanti in Chiapas

... Per quanto si riferisce alla realtà dei protestanti o evangelici nello stato, sicuramente è cambiata; non si deve dare un giudizio uniforme per tutte le situazioni. Il conflitto dei 30.000 espulsi religiosi di Chamula si è avuto molto prima del conflitto attuale ed ha nel fondo il rifiuto del potere che esercita contemporaneamente l’autorità e l’economia a Chamula, schiacciando ogni movimento che metta in questione le arbitrarietà delle autorità. Gli evangelici si sono opposti alla distribuzione dell’alcol e, siccome erano la maggioranza, questo ha intaccato fortemente il sistema di dominazione, poiché uno dei controlli economici a Chamula è la distribuzione dell’alcol. Però, un gruppo sempre più vasto di evangelici ha rifiutato i controllo stabilito dal Partito Rivoluzionario Istituzionale. L’educazione sorta da qui ha generato rifiuti crescenti da parte delle autorità, a cui avevamo chiesto che ci fosse libertà religiosa, perché anche se evangelici e cattolici non condividiamo lo stesso credo, non c’era diritto di espellere né di dominare. Infine, abbiamo minacciato di non partecipare alle feste cattoliche di Chamula se la situazione fosse continuata: "Non possiamo considerarvi cattolici se continuate ad agire in questo modo", gli abbiamo detto. Allora hanno portato uno pseudovescovo -che è già morto-, che è arrivato dicendo: "Io sono de PRI, io sono d’accordo con il potere", ecc., ecc.

Già allora le espulsioni erano forti. Tuttavia un fenomeno interessante è stato il fatto che i cattolici e gli evangelici espulsi si sono articolati in un movimento di difesa dei diritti umani perché non fossero espulsi coloro che ancora stavano a Chamula e perché gli espulsi tornassero. Quello che è grandioso è che in questa realtà ci sono più di 15.000 espulsi che preferiscono rimanere senza niente, senza casa, senza beni, senza animali che rinunciare alla propria fede, anche se la causa delle espulsioni non sia stata strettamente religiosa, ma l’intenzione di eliminare la critica al sistema di dominio. Quello che è successo è che la parte migliore di Chamula, è fuori Chamula, ed anche se la situazione è deteriorata - ultimamente a La Hormiga ed in altri luoghi -, non si può negare la forza degli espulsi.

... Noi quattro vescovi ci siamo riuniti con quattro pastori per esaminare alcuni piccoli problemi di conflitti che non sono religiosi, ma che implicano evangelici e cattolici. Si è avanzati e, a livello generale, in Messico c’è un rapporto abbastanza favorevole, persino solidale, degli evangelici verso i cattolici. Da quindici anni abbiamo un gruppo di evangelici dell’Illinois e altri del Wisconsin, della Chiesa Unita di Cristo, che hanno solidarizzato in diverse circostanza con la diocesi, ed anche ora in questo problema. Evidentemente questo ha un’influenza interna e anche se ci sono querelle e crucci estranei nei gruppi religiosi, l’ avvicinamento è grande. E’ in questo contesto che si è avuta la consegna della traduzione del Vangelo di San Marco, che è stata realizzata da un gruppo di evangelici ed un altro di cattolici coordinati da me. Dopo, la Società Biblica ha fatto l’edizione. Ci sono progressi significativi. La convivenza può essere armoniosa


(tradotto dall'Associazione Ya Basta! per la dignità dei popoli e contro il neoliberismo - From: "si.ro" <si.ro@iol.it>)



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