Campagna Urgente Rifugiati del Chiapas

Testo di José Saramago letto da Salvator Távora alla conferenza stampa del 4 giugno 1998
a Siviglia alla presentazione della campagna CHIAPAS.

Ogni mattina, quando ci svegliamo, possiamo chiederci quale nuovo orrore ci presenterà, non il mondo, perché, poverino, è solo una vittima paziente, bensì il nostro simile, l'uomo. Ed ogni giorno il nostro timore si avvera, perché l'essere umano, che ha inventato le leggi per organizzarsi la vita, ha inventato anche, contemporaneamente o persino prima, la perversità di utilizzare queste leggi a beneficio proprio e, soprattutto, contro gli altri. L'uomo, mio simile, nostro simile, ha brevettato la crudeltà come formula di uso esclusivo nel Pianeta e dalla perversione della crudeltà ha organizzato una filosofia, un pensiero, un'ideologia, in conclusione, un sistema di dominio e di controllo che ha imbrigliato il mondo a questa situazione malata in cui si trova oggi.

Serva questo lungo preambolo per spiegare lo stato d'animo con cui ho ricevuto la terribile notizia del massacro di Acteal. Ci si diceva "quarantacinque morti in Chiapas" come prima si era parlato di "insurrezione in Chiapas" ed uno accetta l'enunciato come se fosse una mazzata, uno in più da aggiungere a quella di ieri, a quella di domani, un grano in più nel rosario di crimini dell'uomo contro l'uomo.

Tuttavia, la mattina che è stato pubblicato il massacro di Acteal, la mia casa si è fermata. Abbiamo detto: dobbiamo capire. Dobbiamo condividere. E siamo andati in Messico, siamo andati in Chiapas, al centro del dolore ed al cuore del nostro passato, nel luogo dove avremmo potuto conoscere. Siamo andati in Chiapas e ci siamo riflessi negli sguardi degli indigeni sopravvissuti ai massacri della storia, negli occhi neri dei bambini mutilati, nella pazienza incomprensibile degli anziani che ci osservavano, forse anche loro volendo capire. Vedendo gli indigeni chiapanechi abbiamo scoperto le nuove fattezze della logica del potere, sempre così uguale, così immutabile nel passare del tempo, delle generazioni e degli usi politici.

Siamo stati in Chiapas. Abbiamo visto le case degli indigeni, gli accampamenti dei rifugiati, quelli provvisori e quelli considerati definitivi. Abbiamo conosciuto le loro proposte per il futuro, che per loro sarà sempre imperfetto, e che sono riflesse negli Accordi di San Andrés che il governo messicano ha sottoscritto e che ora non vuole rispettare; abbiamo conosciuto Rosario Castellano, la scrittrice che nonostante sia morta ventiquattro anni fa continua ad essere un'ambasciatrice del Chiapas, perché nei suoi romanzi ha saputo raccontare le vicissitudini degli indigeni ed i soprusi dei bianchi. Abbiamo visto l'esercito messicano con uniformi da campo ed equipaggiato per iniziare una guerra. Abbiamo visto i cooperanti internazionali curare bambini denutriti e donne giovani che hanno perso i loro denti ed il cui corpo si è seccato come si secca il fango che sostiene le loro poveri case. Abbiamo visto la povertà, l'umiliazione, il dolore, ma abbiamo visto anche la dignità nelle parole del guerrigliero che ci descriveva perché aveva deciso di ribellarsi e di accettare l'invito dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, ultima e forse unica risorsa per frenare il lento genocidio che gli indigeni del Messico e del resto dell'America stanno soffrendo.

Perché gli indigeni del Chiapas non sono gli unici umiliati e vinti del mondo: nei cinque continenti si ripetono ogni giorno situazioni di vessazione e crimine contro gruppi, etnie, popoli, in definitiva, contro i poveri dei poveri, contro ciò che il sistema imperante, il capitalismo autoritario che governa il mondo, considera inutile per i suoi obiettivi e quindi, scartabile, residuo, materiale di scarto suscettibile ad eliminazione senza pagare. Senza che gli autentici responsabili paghino per questo, come una volta ancora stiamo vedendo.

Tuttavia in Chiapas si è detto basta. Gli indigeni si sono organizzati per combattere e negoziare. Intorno al subcomandante Marcos, hanno mostrato la faccia al governo ed hanno dato una lezione di dignità al mondo, e questo non è retorica. La decisione ferma di vivere un'altra vita la percepiamo negli uomini e nelle donne con cui parliamo. Nella fermezza e nella rotondità di gesti e parole, nella nuova concezione che essi stessi hanno. Gli indigeni hanno assunto per loro il progetto di Zapata, e si sono fatti zapatisti, sotto la bandiera di "Tierra y Libertad" che Zapata ha usato come arma, continueranno a combattere il governo, il latifondo, il capitale, la concezione della storia che li considera superflui, specie in estinzione.

Siamo andati in Chiapas. Abbiamo raccolto impressioni, conoscenze, emozioni. Abbiamo condiviso il dolore e le lacrime. Come altri che sono andati prima e che andranno in futuro. Sappiamo di avere l'obbligo di raccontare ciò che abbiamo visto, dire i nomi dei bambini, dei cooperanti, delle persone che si sono fatte indigene per sentire come gli indigeni, e così comprendere meglio. Siamo venuti carichi di nomi, Jerónimo, Pedro, María, Ulises, Samuel, Marcos, Rafael, Ramona, Rosario, Carlos, nomi castigliani per gente antica e contemporanea.

Il Chiapas non è una notizia in un giornale, né la razione quotidiana di orrore. Il Chiapas è un luogo di dignità, un focolare di ribellione in un mondo pateticamente addormentato. Dobbiamo continuare a viaggiare in Chiapas e a parlare di Chiapas. Loro ce lo chiedono. Dicono in un cartello che si trova all'uscita del campo di rifugiati di Polhó: "Quando l'ultimo di voi se ne sarà andato, cosa sarà di noi?".

Loro non sanno che quando si è stati in Chiapas, non se ne esce più.

Per questo oggi siamo tutti in Chiapas.

José Saramago.


(tradotto dall'Associazione Ya Basta! per la dignità dei popoli e contro il neoliberismo - From: "si.ro" <si.ro@iol.it>)



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