COMPAÑER@S: torniamo ad appellarci alla
vostra solidarietà e per un URGENTISSIMO aiuto umanitario per gli
sfollati di Los Altos del Chiapas (scriveteci e vi invieremo un numero
di conto bancario).
Vi inviamo un nuovo appello dove si denuncia che ci sono 20 famiglie sequestrate
dalle bande paramilitari. Esigete dal governo la liberazione di questa
gente e uno stop alla violenza.
SITUAZIONE D'EMERGENZA TRA I RIFUGIATI DI CHENALHO!!!!!
Migliaia di bambini, donne e uomini indigeni espulsi dalle loro comunità
per la violenza paramilitare nel municipio di Chenalhó, in Los Altos
del Chiapas, stanno vivendo nelle montagne in una situazione d'estrema
emergenza.
Centinaia di famiglie, suddivise in gruppi a causa della intricata geografia
del luogo, mancano d'alimenti, medicine, non hanno con che coprirsi né
possono cambiarsi d'abito, non hanno neppure un tetto per difendersi dall'intemperie.
Alcuni pezzi di plastica e foglie di palma appese fra gli alberi sono tutto
ciò che protegge i loro corpi dal freddo e dall'umidità delle
notti di dicembre.
Una spessa nebbia copre il monte per interi giorni.
Il 90% dei bambini sono ammalati, alcuni gravemente: polmonite, bronchite.
Alcune donne hanno dato alla luce in queste condizioni funeste, i bebè
rischiano di morire per infermità respiratorie. In maggioranza le
donne sono ammalate, e presentano periodi mestruali di due settimane.
Nel frattempo, nei loro villaggi, i paramilitari del Partito Rivoluzionario
Istituzionale rubano e saccheggiano, bruciano le case delle basi d'appoggio
zapatiste e godono dell'impunità assoluta.
Questi gruppi armati sono formati da indigeni del partito ufficiale mescolati,
addestrati e confusi con i poliziotti della Pubblica Sicurezza ed i militari.
Le autorità del municipio ribelle di Chenalhó - parallelo
all'ufficiale - denunciano che sono già 6 mila gli indigeni che
hanno dovuto che abbandonare i loro villaggi.
In Yochoj ci sono 448 persone rifugiate nella comunità di Yibeljoj.
Mangiano 2 tortillas - di mais - al giorno ciascuno.
Dei 150 bambini, 142 sono malati.
Sabato una donna ha partorito.
Più giù, in un pantano, sono nascoste altre 200 persone,
in condizioni ancora peggiori.
Però l'avvenimento più grave è accaduto nella comunità
di Pechiquil.
In Pechiquil i paramilitari hanno sequestrato 20 famiglie che possono essere
considerate "ostaggi di guerra".
Non permettono loro nè di parlare né di muoversi.
Pattugliano il luogo uomini con varie divise, da quella proprio militare,
a quella del poliziotto giudiziario, da quelle delle truppe speciali, fino
a quella marron e nero con paliacate rosso (imitando la divisa dell'Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale) o quella in civile.
Paz Carmona, componente della missione d'osservazione formata da parlamentari
federali, rappresentanti di organizzazioni dei diritti umani e della Associazione
Nazionale degli Avvocati Democratici del Messico, ha dichiarato dopo aver
visitato questa comunità: "Alla gente uscivano fuori gli occhi
dalle orbite per l'angustia, gli altri rifugiati in montagna sono rovinati
però almeno possono gridare, piangere, spiegarci la loro situazione.
In Pechiquil vari uomini armati li vigilavano e uno ha gridato "non
parlate" e quindi ha detto loro di ritirarsi. Mi sono rimaste registrati
questi sguardi che volevano dire tanto e non potevano parlare...".
Nel paese ci sono varie case bruciate, sono quelle di coloro che non vanno
d'accordo con il PRI o di quelli che si rifiutano di pagare cifre esorbitanti
ai paramilitari come "protezione".
La missione d'osservazione ha dovuto abbandonare velocemente il luogo,
di fronte all'ostilità dei padroni e dei signori del paese e della
loro gente.
Le 20 famiglie, alcune di loro non complete perché alcuni dei loro
membri sono riusciti a fuggire, "ora potrebbero essere già
morte, sono alla mercé dei pistoleri, questa è la guerra,
sono ostaggi di guerra", ripete costernata Paz Carmona.
I militari "erano nervosissimi" di fronte alla visita della missione
d'osservazione.
Fotografavano i loro componenti ed i loro accompagnatori.
"Erano forze d'assalto, alcuni vestiti da civile, altri con pantaloni
neri, come gli zapatisti".
All'uscire da Petchiquil, fra la sorpresa di tutti, la missione d'osservazione
ha incontrato un posto di blocco recentemente installato dalla polizia
migratoria che ha chiesto accreditazioni, visti e passaporti a tutti gli
stranieri.
"Erano gli stessi d'immigrazione che ci sono all'entrata della selva
Lacandona, prima di Las Margaritas, li avevano mandato là solo per
noi. Io dico che se l'immigrazione serve per custodire le frontiere, in
Chiapas si mettono per custodire la frontiera della miseria e dell'impunità",
ha detto Carmona.
Il presidente municipale ribelle di Chenalhó ha spiegato che la
gente "non ha alimenti né abbigliamento, ci sono molti malati
e non abbiamo medicine. Restiamo in emergenza".
Le donne sono vittime adesso non solo di questi inumani avvenimenti, ma
anche bersaglio dei proiettili.
Due indigene tzotziles, Elena Hernandez Perez e Rosa Pérez López,
una di 40 anni e l'altra di 16, sono state assassinate mentre tentavano
di rifugiarsi in montagna mentre fuggivano dal loro paese, Aurora Chica,
il 18 di novembre.
Due uomini sono incorsi nella stessa sorte, Mario Hernandez Pérez
e Mariano Santiz Gómez. Secondo la denuncia degli abitanti che sono
riusciti a fuggire dal posto, gli aggressori erano priisti del paese di
Canolal insieme con la polizia di pubblica sicurezza "che hanno distribuito
circa 100 armi".
Erano arrivati già varie volte sparando nella comunità, per
seminare il terrore.
Quindi hanno bruciato le case.
Però le cose di valore, come il caffè, le hanno portate via
in camion.
Le autorità dello stato si sforzano di ripetere che non ci sono
bande armate in Chiapas ad eccezione dell'EZLN.
Nell'ultimo mese è stata riportata la morte violenta di 14 indigeni
nella regione, in maggioranza delle basi d'appoggio dell'EZLN.
In poche settimane sono state attaccate 15 comunità di tutto il
municipio, e secondo le denunce ricevute, sono state bruciate 50 case.
La Procura Generale di Giustizia dello Stato ha confermato per lo meno
5 delle morti e 12 case bruciate in attacchi violenti di circa 40 uomini
incappucciati.
Un rifugiato, Alfredo Gómez Guzmán racconta come hanno ammazzato
suo fratello José il 24 di novembre nell'attacco dei paramilitari
alla comunità di Yaxjemel, a circa 70 km da San Cristóbal
de Las Casas: "Lì sono arrivati gli aggressori priisti di Puebla
e la Pubblica Sicurezza ed hanno attaccato e hanno ammazzato a colpi mio
fratello José".
Gómez Guzman denuncia: "I priisti hanno picchiato e violentato
3 donne. Hanno picchiato un altro uomo e si sono portati via altri tre
in più che hanno rilasciato solo dopo il pagamento di mille pesos.
Tutte le case degli zapatisti sono state distrutte".
LA FAME CHE VIENE
Questa regione dall'accidentata geografia e dai vari climi è
ricca nella produzione di caffè.
L'economia degli abitanti del luogo dipende da questo chicco aromatico
che quest'anno ha una buona quotizzazione a livello internazionale.
La strategia dei gruppi paramilitari è basata sull'impoverimento
dei contadini che appoggiano il governo ribelle.
Due giorni dopo l'attacco a Pechiquil e a Tzajalukum, i priisti e i poliziotti
si sono portati via il caffè che avevano raccolto gli zapatisti.
Lo stesso è successo in tutte le 12 comunità dei dintorni
nelle ultime settimane.
"A José Pérez Hernandez di Tzajalukum hanno portato
via 43 quintali di caffè. Un camion di tre tonnellate se n'è
andato pieno di sacchi di caffè di tutto il villaggio", dice
Luis Pérez in un'intervista.
"I priisti stanno pure raccogliendo nei nostri terreni di produzione
di caffè. Il denaro lo stanno usando per comprare armi per farla
finita con noi stessi. Mi possono ammazzare con un proiettile comprato
con il caffè che mi hanno rubato", aggiunge con un nodo nella
gola José Luis, che come tutta la sua famiglia non è rientrato
nel suo villaggio da quattro giorni.
Sua moglie, i suoi figli, i suoi vicini stanno sopportando lacrime e fame
in montagna. Il saccheggio del caffè, unica fonte d'entrate annuale
di questi indigeni, implica la fame per l'anno che viene.
I RIFUGIATI IN MONTAGNA
"Hanno bruciato le nostre case e si sono rubati tutto", è
la storia che si ripete in Yaxjemel, Tabteckum, Tzanembolon, Los Chorros,
Chimix, La Speranza, Yibeljoj, Pechiquil, Tzajalukum, Bojoveltik, Aurora
Chica e Canolal.
In un paraggio montagnoso, vicino la comunità di Acteal, tra terreni
a produzione di caffè e grandi alberi appaiono decine di bambini,
donne e uomini.
Hanno passato due mesi vivendo tra gli alberi e il fango interminabile.
"Siamo stati buttati fuori dalla comunità di La Speranza, dal
21 settembre. Siamo andati di luogo in luogo fino a qui. Ora non abbiamo
più da mangiare, ci hanno dato tostadas in questo periodo. La gente
non vuole più morire di fame... Sì, abbiamo casa, però
ce l'hanno già distrutta e bruciata... Alcuni compagni avevano delle
rivendite, però si sono portati via tutta la mercanzia... Per questo
ce ne siamo andati. E qui stiamo, siamo alla fine", racconta Manuel
López con il suo figlioletto di appena 8 mesi in braccio.
Le donne si ammucchiano dietro, con i bambini tra le gambe ed i bebè
appesi del collo.
Una vecchietta si tappa il volto con il huipil bianco con ricami rossi,
il vestito tradizionale di questo popolo.
I singhiozzi fanno sì che il respiro sia agitato.
I bambini scalzi, appesi alle loro gonne, tossono, alcuni piangono.
Le più anziane iniziano a parlare.
Poco a poco, tutte le donne parlano insieme, in tzotzil.
Una litania di lamenti.
Non importa loro che noi giornalisti non capiamo.
È sufficientemente espressivo il loro tono di voce, i loro sguardi
anelanti, le loro mani che si chiudono e si aprono segnalando il vuoto.
Non abbiamo niente, ora, niente per i nostri figli...
Questo dicono le donne in questo triste racconto collettivo.
Dicono che hanno perduto tutto.
Parlano e parlano.
Un uomo che le ascolta si nasconde gli occhi per piangere.
Alla fine un ragazzo traduce: "...se ne sono andate da Pechiquil dal
20 per timore dei proiettili, poi sono arrivate qui. Hanno lasciato tutte
le loro cose, materiali e strumenti di lavoro. Hanno rubato i loro cavalli
e gli animali che avevano. E si sono mangiati tutto pure. Le donne piangono
perché sono rimaste lì tutte le loro cose dentro alle loro
case. Hanno tagliato caffè e mais, hanno lasciato i loro lavori".
"Non sappiamo perché il presidente ha dettato l'ordine e ha
mandato le armi. Così come in Jibeljoj ha mandato 27 casse di fucili
- AK 47 -. Per questo la gente ha già paura, perché noi non
abbiamo armi, per questo se ne sono andate e l'altro ieri sono arrivate
fin qui", spiega Joaquín Santiz Lopez, originario di Pechiquil.
Verónica Perez è una bambina tzotzil di 10 anni. Inizia a
parlare nella sua lingua mentre le sue dita giocano nervosamente, quasi
tremando, con la sua collana di numeri colorati.
Lei ha portato via i suoi fratellini da La Speranza il 21 settembre.
"Hanno iniziato a sparare in La Esperanza e non c'era sua mamma, nemmeno
suo papà. Se n'è andata portandosi dietro i suoi fratelli,
da lì iniziarono a sparare, se n'è andata a nascondersi,
hanno sentito i proiettili più vicini, stavano proprio cercando
lei. Dice che sta già soffrendo, che non hanno tortillas nè
mais nè niente da mangiare ora".
Marcela Jiménez se n'è andata da Tzajalukum e di notte ha
camminato su per la montagna ed è stata morsa da un serpente.
"Altre signore e bambini stanno infermi. Non abbiamo mais nè
fagioli, che dare loro? già non ce ne rimane", assicura il
professor Sebastián Pérez di Acteal, la comunità che
aiuta in ciò che può questo gruppo di rifugiati.
I sindaci indigeni ribelli di Chenalhó, San Andrés Sacamchen
de Los Pobres e San Juan de la Libertad hanno condannato la violenza che
è scoppiata nelle regioni Altos, Nord, Sud e Selva, "promossa
dal governo federale e statale attraverso i presidenti municipali priisti,
le guardias blancas e la sicurezza pubblica".
I municipi autonomi hanno richiesto al governo federale l'adempimento degli
accordi in materia indigena firmati con l'EZLN nel febbraio del 1996.
Hanno richiesto pure la destituzione del presidente municipale del PRI
in Chenalhó, Jacinto Perez Cruz, cui attribuiscono la responsabilità
di armare guardias blancas.
"Non vogliamo più che si sparga altro sangue tra fratelli indigeni",
hanno affermato.
"Ci sono migliaia di persone che hanno abbandonato le loro comunità
fuggendo in montagna ed alcuni rifugiandosi in altre comunità. Se
continuano gli attacchi agli sfollati non si saprà già più
dove fuggire. Stanno soffrendo fame, senza tetto, senza altri vestiti che
quelli che si portano addosso, sfuggono solo alla violenza, al massacro
e alla persecuzione delle guardias blancas", segnala il comunicato
ribelle. "Esigiamo dal governo dello stato che si astenga dalla violenza
e cerchi una soluzione attraverso il dialogo e s'impegni a ritirare la
sua Pubblica Sicurezza, al pagamento per i danni provocati, al disarmo
delle guardias blancas e per il ritorno alle loro case degli sfollati perredisti,
priisti, società civile, basi d'appoggio dell'EZLN. Non vogliamo
più che si sparga sangue tra fratelli contadini poveri".
E quello che succede è che tra gli sfollati ci sono anche i priisti
che si sono rifiutati o non hanno potuto pagare le tasse imposte loro dai
paramilitari.
O quelli che non hanno voluto arruolarsi con la polizia per combattere
contro i loro fratelli. "I giovani sono reclutati a forza, li si obbliga
a bere - alcool - e a guardare video porno e a sparare proiettile e a fumare
marijuana", denuncia Mariano Perez.
Nell'attacco a Tzajalukum, gli aggressori hanno perso due documenti d'identità,
erano del PRI, uno di loro a nome di Manuel Gómez Ruiz, abitante
di Acteal.
SOLIDARIETÀ CON GLI SFOLLATI DI CHENALHÓ MANDATE
AIUTI A ENLACE CIVIL
E FATE PRESSIONE AL GOVERNO PER UNA SOLUZIONE:
Scrivete lettere, fate proteste, inventatevi quello che volete!
San Cristobal de Las Casas, 3 dicembre 1997
ENLACE CIVIL
calle Ignacio Allende 4
San Cristóbal de Las Casas
29200 Chiapas-MEXICO
Tel y fax: 52-967-82104
e-mail: enlacecivil@laneta.apc.org
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(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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