dal bollettino "Chiapas al Día" n. 112 del 3 giugno 1998

 

La salute in tempo di guerra

(le sue condizioni negli accampamenti dei rifugiati di Chenalhó)

 

Si sono appena compiuti cinque mesi dal massacro di Acteal, e per alcuni otto mesi da quando sono usciti dalle loro case. Come sopravvivono? Qual è la loro situazione di salute? Come li ha appoggiati l’aiuto umanitario? Un gruppo di promotori di salute de Las Abejas hanno descritto con CIEPAC la situazione in cui vivono: le condizioni dell’acqua, della bonifica, l’alimentazione e i servizi medici. Il loro racconto è una denuncia sulla qualità degli aiuti ricevuti finora.

 

La casa: cercando protezione

Il primo criterio per la costruzione di una casa che protegga i rifugiati è quello della sicurezza e della protezione. Quando le basi dell’EZLN si rifugiano a Polhó cercano la protezione che gli può dare questo municipio autonomo di fronte alle aggressioni dei paramilitari. Quando Las Abejas si trovano ad Acteal lo fanno confidando nel rispetto della "neutralità" che gli può offrire il tempio, e a X’oyep li spinge la distanza dei gruppi militari ed il difficile accesso. Questo criterio è così fondamentale che altri, come il rifornimento di acqua, le condizioni dell’accampamento, la facilità dell’arrivo degli aiuti, ecc., rimangono in secondo piano.

 

Insicurezza

Non esiste un censimento negli accampamenti di rifugiati per gruppi di età dettagliati che permetta di orientare le necessità. Non si conosce il numero esatto di persone disabili o con limitazioni importanti che richiedono programmi speciali di alimentazione o di cura. Si hanno solo dati generali: a X’oyep ci sono 1.086 rifugiati e ad Acteal 750. In entrambi, dopo 8 mesi, continuano ad arrivare ancora familiari che fuggono dai paramilitari e lo fanno di nascosto, attraverso le montagne, affinché i militari non li arrestino o li consegnino ai paramilitari.

I promotori manifestano che, nonostante tutto, la popolazione non si sente sicura. Il principale criterio che motiva l’insediamento in uno o nell’altro luogo (la sicurezza) non si compie. I militari hanno circondato tutti gli accampamenti, Ad Acteal si parla di raffiche di mitragliatori dalle macchine della Sicurezza Pubblica e la paura e l’impotenza sono quotidiani. A X’oyep la popolazione si è manifestata il 3 gennaio contro la presenza dei militari vicino alla fonte d’acqua a cui si riforniscono i rifugiati e la risposta è stato l’invio di poliziotti militari antisommossa e di un elicottero per proteggere i militari. Quella notte a X’oyep tutti hanno pianto d’impotenza.

 

Accatastamento.

A questa mancanza di sicurezza si sommano altri mali. In un "Manuale per situazioni di emergenza" edito nel 1988 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) - che continueremo a citare in questo documento - si menziona che "l’ubicazione (di un accampamento di rifugiati) deve dare sufficiente spazio utile ai rifugiati. La OMS raccomanda, come cifra globale minima, 30 metri quadrati per persona, più il terreno che serve per le necessità collettive e agricole e per il bestiame.

Di questi 30 metri, lo spazio minimo assoluto per persona per un alloggio d’emergenza non deve essere inferiore a 3, metri quadrati". Una calcolo a X’ oyep ci da cifre comprese tra 1,2 e 1,8 m2 per persona e ad Acteal tra 1 e 1,4 m2 per persona.

Lo stesso documento indica che in una casa abitazione di metri 7x10 non ci dovrebbero stare più di 20 persone e che "se è necessario utilizzare alloggi multifamiliari non si devono assegnare ad ogni struttura più di 35 persone, cioè 7 famiglie". A X’oyep stanno vivendo da 10 a 15 famiglie (60-95 persone) in case di metri 10x5 o 15x5, sono strutture che dopo otto mesi hanno il tetto di nailon e il pavimento di terra. Su questo pavimento di terra, senza stuoie né tavole e riparati dal freddo "dormono" con una coperta per la coppia e un’altra per i suoi figli. Ad Acteal i promotori dicono che la popolazione sopravvive in case che non sono ben costruite, di 12x5 e 10x5, dove dormono da 8 a 10 famiglie, a volte senza porte o senza pareti ed anche loro sul semplice pavimento molte volte umido, e con una sola coperta. C’è anche chi racconta che negli accampamenti di Polhó alcuni dei tetti sono fatti con coperte.

Il documento citato anteriormente avverte che il rischio di malattie contagiose aumenta considerevolmente negli alloggi collettivi e che se non si rispettano queste cifre minime i rischi di epidemie, i problemi sociali di scontro tra i rifugiati, i problemi ambientali ed la manutenzione degli edifici possono deteriorarsi rapidamente. La mancanza di un tetto sicuro che protegga dagli elementi, di uno spazio per vivere e per tenere i beni con sensazione di intimità e sicurezza emozionale genera influenza, bronchiti, broncopolmoniti, tubercolosi e morbillo che possono causare stragi in una popolazione infantile denutrita.

Delle 23 condizioni minime necessarie per evitare le malattie in un insediamento (COPAL, "Manuale di salute per rifugiati" 1998, pag. 5-7) a X’ oyep se ne compiono 9 e ad Acteal 10.

 

L’acqua: principio di vita

Fornire acqua ai rifugiati "esige un’attenzione immediata, dall’inizio della situazione di emergenza; il fine è conseguire una disponibilità di acqua sufficiente e garantire la potabilità della stessa", secondo il documento già riferito. Assicurare la somministrazione di acqua è importante fino al punto che la sua mancanza deve far pensare seriamente allo spostamento dell’accampamento in un altro luogo.

Sapendo che le necessità d’acqua variano a causa del clima, dell’esercizio fisico, ecc., a titolo indicativo l’ACNUR considera che le necessità minime per evitare le malattie "sono di 15-20 litri per persona al giorno, di 40-60 litri per malato al giorno nei centri sanitari e di 20-30 litri al giorno per persona nei centri di alimentazione".

I promotori di X’yopen dicono che nell’accampamento non c’è acqua, che la fonte è contaminata e scarsa perché la usano i soldati, e che per lavare i vestiti devono camminare due ore fino a un fiume, aspettare che asciughino perché sono gli unici che hanno e ritornare in altre due ore. Questo li obbliga a lavarsi solo ogni settimana o ogni 15 giorni. La Croce Rossa Messicana, che secondo il suo presidente Barroso Chavez spende in Chiapas 700 mila pesos settimanali (La Jornada, 12.03.98 pag. 6) e che riceverebbe appoggio internazionale per i rifugiati del Chiapas nella misura di 1,5 milioni di dollari (Cuarto Poder, 21.03.98), dice di non avere denaro per comprare la benzina somministrando solo una botte di 5.000 litri di acqua al giorno (che non sempre arriva) e che devono dividere con i soldati e i priisti accampati nelle installazioni dei militari. Alla fine possono riempire solo un piccolo tino o uno e mezzo, per cui dei 20 litri minimi arrivano solo 1,5 litri per persona la giorno. Ad Acteal si dice che la situazione è simile poiché arrivano solo 2 litri per persona al giorno, e non tutti i giorni.

Di fronte a questa situazione i promotori si dicono che "se non ci possiamo lavare, non possiamo lavare i piatti, non possiamo lavare le mani prima di mangiare o dopo aver usato la latrina, e non possiamo bollire l’acqua per mancanza di pentole, come non ammalarci? Se la Croce Rossa consegna più acqua all’esercito che a noi cosa possiamo sperare? Ci stanno portando alla morte per malattia, che non richiama né la televisione né la stampa.

Effettivamente negli accampamenti ci sono già malattie causate dalla mancanza d’acqua come la scabbia, i pidocchi, la pulce bianca, i funghi, infezioni della pelle e congiuntiviti. Le più gravi, tuttavia, sono quelle causate dalla mancanza di acqua potabile.

 

La bonifica: un’urgenza

Una priorità della popolazione rifugiata è quella di evitare che la scarsa acqua che si ha non si contamini. Se questo succede o se non si ha igiene per mancanza d’acqua le malattie che si presentano possono causare epidemie.

A parte le parassitosi e le dissenterie, non poco frequenti, in questo caso sanno la febbre tifoide, il colera o l’epatite che possono causare stragi in una popolazione denutrita.

In questo capitolo ha importanza particolare la protezione delle fonti d’acqua e dei tini di raccolta per evitare la contaminazioni con feci umane.

La misura più urgente è la costruzione di latrine, tenendo ben presente che sono una forma di contenimento della contaminazione, per cui si richiede una minima cura di esse.

I promotori hanno manifestato che le latrine sono costruite in modo abbastanza scarso e non vi si pone più calce, non hanno abbastanza cenere, né hanno petrolio per cui i cattivi odori si estendono e non si evita la trasmissione di malattie degli insetti. Non hanno coperchi di nessun tipo e molte di esse sono fatte solo di tronchi. Per questo motivo sono già cadute dentro due persone, tra cui un bambino e ora sono pochi quelli che si arrischiano ad entrarvi, motivo per cui si spargono escrementi dappertutto.

Essendo costruite senza alcun tetto e non essendo protette dall’acqua, quando piove si riempiono d’acqua e traboccano provocando che le latrine si trasformino in focolai d’infezione più che in forme di controllo della contaminazione, peggio ancora quando alcune di esse si trovano vicino a spazi pubblici o cucine. Non si sono previste latrine per terreni umidi.

L’ACNUR stabilisce come norma che ci sia una latrina al meno ogni 20 persone. A X’oyep c’è una latrina per 10 famiglie (50-60 persone) e ad Acteal ce ne sono 23 (1 ogni 35 persone). Nel caso di Polhó la situazione è simile e chiedono più appoggio in questo senso. L’altra condizione importante è che per evitare la contaminazione delle fonti d’acqua ci devono essere più di 15 metri dalle latrine ai pozzi d’acqua e che questi devono stare sopra il livello delle latrine. Nessuna di queste condizioni è presente ad Acteal, dove la distanza massima dal pozzo alla latrina può essere di 10 metri ed il pozzo è sotto la latrina. Nel momento in cui le piogge riempiono le latrine e le fanno trasbordare il pozzo sarebbe solo un’altra latrina.

Stanno iniziando a nascere discussioni perché le latrine, che se fossero ben fatte e in buone condizioni potrebbero durare dai 2 ai 4 anni, nelle condizioni attuali durano solo 2 mesi, e le persone che hanno ceduto i terreni per gli accampamenti si negano ad aprirne altre. D’altra parte nessuna delle istituzioni di salute che lavorano negli accampamenti realizza un vigilanza della bonifica o delle latrine.

 

L’alimentazione: una priorità

L’ACNUR raccomanda che "in una situazione di emergenza in cui i rifugiati possono dipendere completamente dalle fonti esterne di rifornimento di alimenti, deve valutare, al più presto possibile, il numero dei rifugiati ed il loro stato di salute". Nessuno l’ha fatto e non si hanno dati sullo stato di denutrizione, nemmeno della popolazione infantile.

A X’oyep i promotori manifestano che i rifugiati ricevono 2-3 kg. di mais al giorno per ogni famiglia di 6 persone e ad Acteal 2 tazze di mais al giorno per persona, che gli permette di mangiare due volte al giorno. Molti dei rifugiati non hanno stoviglie e oggi, dopo otto mesi, ancora mangiano sulle mani o sulle foglie. La carne e le verdure non si mangiano da 6 mesi. Gli unici animali che hanno seguito i loro padroni nello sfollamento sono stati i cani e molti pochi cavalli, il resto, pollame, maiali, ecc., sono rimasti.

Alcune istituzioni umanitarie hanno manifestato che non hanno altro per appoggiare le richieste di alimenti, altre rispondono con quantità inferiori a quelle richieste per mancanza di fondi o per paura di creare dipendenza; nel frattempo le istituzioni ufficiali dichiarano che tutte le necessità sono soddisfatte. "Per dare da mangiare ai 10.500 rifugiati che ci sono a Polhó, Acteal e Poconichim, servono tre tonnellate e mezza di mais al giorno, Il costo perché gli accampamenti di rifugiati mangino tortillas e pozol è di 8.000 pesos giornalieri" (Ramirez, J. La Jornada, Ojarasca 02.05.98 pag. 2).

La mancanza di un censimento e la valutazione di rifugiati non ha permesso di identificare i gruppi della popolazione meno protetti, bambini sotto i cinque anni, donne incinte, poppanti, feriti, malati, disabili, anziani... né come misurare dopo questi otto mesi se gli aiuti ricevuti si possono considerare minimi, sufficienti o insufficienti nel numero di calorie. Allo stesso modo non c’è un programma governativo di alimentazione per quei denutriti che raggiungono lo stato di gravità. A quanto sembra, solo un’organizzazione civile appoggia una parte della popolazione infantile e materna in programmi nutrizionali.

Il deterioramento nella nutrizione della popolazione rifugiata, ha la gravità di diminuire in essa le sue difese contro ogni tipo di sofferenza.

Come conseguenza e date le difficili condizioni di vita, le malattie contagiose si possono estendere con incredibile rapidità. I promotori hanno manifestato che sono già numerosi, ma non quantificati, i casi di "sonno, debolezza, nausea, malessere generale, stanchezza, bambini denutriti, anemie, mancanza di vitamine, gastriti, ulcere...".

 

Le cure mediche: all’ultima risorsa gli sforzi maggiori

Raccomandazione dell’ACNUR per le situazioni d’emergenza è che "i servizi sanitari devono tendere fin dall’inizio sia a prevenire che a curare le malattie, cioè a curare ed a mantenere sani i rifugiati (...). Solo con misure preventive, insieme al controllo delle malattie contagiose, si può mantenere la buona salute e diminuire il numero di nuovi casi. L’acqua potabile, le misure di salute ambientale, la nutrizione adeguata, la lotta contro le malattie contagiose, la cura della madre e del bambino, l’educazione e la formazione sanitaria dei rifugiati sono parte integrante delle cure mediche".

E’ provato che con le sole cure mediche il numero di ammalati continua a crescere in proporzione all’aumento del periodo di rifugio. Che solo con l’applicazione di queste misure preventive il numero riesce a diminuire. I promotori manifestano che a X’oyep tutti i mesi ci sono morti ed una media giornaliera di 20 malati (che equivale a circa 600 ammalati mensili su una popolazione di 1.098, cioè il 54,5%. Intanto ad Acteal il numero di malati di aprile è stato di 350 (46,6% su una popolazione di 750). Anche il presidente della Croce Rossa Messicana ha manifestato in marzo di curare 200 pazienti al giorno (6.000 al mese su una popolazione di rifugiati di 10.500 equivale al 57%).

Sebbene i promotori di Polhó manifestavano alcuni mesi fa che tra le medicine ricevute in dono ne mancavano altre che servivano come antibiotici, antiparassitari, analgesici, ferro, ecc., i promotori di X’oyep e di Acteal denunciano con preoccupazione che di fronte alla mancanza di medicine, i medici stanno facendo trattamenti incompleti e gli mancano gli antiparassitari sufficienti. Negli accampamenti le istituzioni si salute fanno solo cure mediche e la CRM approvvigiona con scarsità di acqua, come già detto, ma non vigila la bonifica.

I promotori sottolineano come il loro ruolo è stato preso dai servizi di cura che offrono alcuni medici e che essi hanno smesso di curare la salute e si sono trasformati in semplici traduttori. I promotori avvisano che hanno perso il controllo sulle cure mediche: il medico prescrive, cura e ha il registro dei pazienti, ma non ascolta le informazioni che gli danno e, secondo loro, alcuni medici li riprendono se chiedono qualcosa delle diagnosi.

Il Programma di Aiuto Umanitario a Chenalhó, del Ministero della Sanità misura i suoi successi esclusivamente in funzione del compito assistenziale che svolge, per bocca del suo ministro De la Fuente, che "in poco più di in mese da quando è partito il programma (...) si sono concesso 5.171 visite mediche, le principali cause di cure sono state infezioni respiratorie acute, parassitosi e malattie diarroiche acute, si sono ricoverate 64 persone e sono stati vaccinati più di 10.000 bambini" (Gallegos, E. La Jornada 12.02.1998, pag. 12). Tuttavia, sapendo che i rifugiati de Las Abejas e i simpatizzanti dell’EZLN non ricevono aiuti governativi, possiamo dedurre che in queste relazioni si includano gli appoggi dati dagli uffici sanitari nel capoluogo municipale con popolazione esclusivamente priista, gli appoggi che la Croce Rossa Messicana e/o i servizi che svolge l’Esercito Messicano nei suoi 30 accampamenti militari a Chenalhó e nelle comunità priiste dove risiedono anche i paramilitari.

Tuttavia, l’ACNUR consiglia "l’unico vaccino indicato nelle prime settimane in una situazione di emergenza è quella dei bambini di piccola età contro il morbillo. Questa è una misura altamente prioritaria, (...) tutti gli altri vaccini necessari devono farsi all’interno del programma ampliato dei vaccini." E spiega: "Spesso esistono pressioni in favore di programmi di vaccinazione massccia ed immediata. Tuttavia ci sono forti ragioni, sia di tipo medico che di tipo pratico, per resistere a tali pressioni (...) le cause più comuni di malattia e morte nel periodo d’emergenza non si prevengono con le vaccinazione", tranne quella del morbillo, come abbiamo detto, che fa pensare che la campagna di vaccinazione risponde a misure più politiche che preventive.

I promotori concludono che alcune di queste forme di "aiuto umanitario" li ha disorganizzati. Essi suggeriscono di lavorare collettivamente, cominciano a sentire la dipendenza delle decisioni degli altri, anche nei programmi di preparazione che ricevono. Le commissioni di acqua, fornitura, ecc., senza essere coordinate tra loro hanno come compito quello di chiedere a terze persone o ad organizzazioni l’assistenza, ed anche queste hanno poca coordinazione. La mancanza di promozione ed appoggio alla forma di organizzazione autogestita di questa popolazione possono essere causa, in un tempo non lontano, di problemi interni tra gli stessi rifugiati, così come la disorganizzazione del gruppo se inserito nel circolo vizioso della dipendenza verso gli "aiuti esterni". E questa è la sfida a cui come organizzazioni civili non siamo preparate e su cui non abbiamo neanche molto riflettuto.

Una popolazione "oggetto", impaurita, senza sufficiente acqua, vestiti e cibo; con latrine scarse e che contaminano, ammucchiata e per più del 50% malata, che riceve un aiuto di "beneficenza" dove le decisioni non stanno nella sue mani e a cui non è stata aiutata la salute mentale dopo il massacro di Acteal (ci sono stati sforzi solo di qualche organizzazione civile e di qualche privato e non sono stati inclusi i piani ufficiali di salute nemmeno come parte dell’indennizzo), è una situazione che indebolisce la capacità di resistenza e di organizzazione delle comunità, facilitando il lavoro controinsorgente per mezzo della divisione, la manipolazione psicologica. L’alcol fino a poco fa assente è già presente in qualche accampamento.

In queste condizioni di malattia, recuperare la salute si trasforma nel primo obiettivo e nella necessità immediata. Il rischio è che gli sforzi si dedicano alla sopravvivenza, la richiesta di giustizia passi in secondo piano.

In molti ci chiediamo come sono possibili queste condizioni di vita dopo tanti aiuti umanitari e carovane che hanno ricevuto i rifugiati di Chenalhó.

Consideriamo che uno dei fattori che spiegano questa situazione è che anche gli aiuti sono Stati condivisi con la popolazione vicina o che vive nello stesso villaggio che li ha ricevuto anche se vive in condizioni precarietà estrema, ma ci sono altre ragioni. In più, questa è la parola dei promotori di salute, bisognerebbe ascoltare quella delle istituzioni che appoggiano dette comunità.

Se queste sono le condizioni di salute in cui si trovano i rifugiati interni sgomberati dalla guerra, dove è arrivato un fortissimo appoggio, possiamo immaginare le condizioni in cui si trovano le altre migliaia di rifugiati distribuiti nel municipio di Ocosingo, Tila, Sabanilla, Tumbalá, Salto de Agua, Amparo Aguatinta, ecc., dove la maggioranza è rifugiata già da un anno e, nella zona Norte, senza molte possibilità di accesso ed appoggio da parte delle organizzazioni civili e umanitarie.

La pioggia comincia già a cadere in alcune regioni del Chiapas. Le malattie scoppiano con facilità, il colera, il morbillo ed altre malattie non rispettano i bambini denutriti negli accampamenti di rifugiati. Ad alcuni protagonisti esterni si pongono alcune domande: fino a dove migliorare le condizioni del rifugio rende difficile il ritorno? Fino dove investire grandi risorse per migliorare un’infrastruttura costosa e permanente quando il meglio è creare condizioni per il ritorno ai luoghi di origine? Come evitare che gli aiuti umanitari si trasformino in assistenzialismo e passività di chi ne beneficia? Fino a dove accettare che il costo per far arrivare gli aiuti implichi il coordinamento o l’appoggio di chi direttamente o indirettamente ha causato lo sgombero, come possono essere il governo, l’esercito o le comunità priiste?

I municipi dove ci sono rifugiati hanno varie costanti comuni: ragioni geograficamente strategiche in termini militari per entrambi gli eserciti; molti militari, paramilitari, corpi di polizia, priismo, EZLN, municipi autonomi. Tuttavia c’è qualcosa di cui abbiamo parlato poco: che risorse strategiche hanno queste regioni? Che ricchezze hanno quelle terre che espellono la popolazione indigena? (petrolio, miniere...).

 

Centro de Investigaciones Economicas y Politicas de Accion Comunitaria, A.C. (CIEPAC) ciepac@laneta.apc.org


(tradotto dall'Associazione Ya Basta! per la dignità dei popoli e contro il neoliberismo - From: "si.ro" <si.ro@iol.it>)



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