Zapata in Europa

di Pierluigi Sullo

3 maggio1997

Il subcomandante Marcos e l'Esercito zapatista non meritano solo solidarietà. Dal Chiapas viene qualcosa di utile per il rinnovamento della sinistra in Occidente. Il suggerimento di costruire uno "stato sociale globale", un fronte di lotta che scelga come avversario, nell'epoca degli stati nazionali "deboli", le istituzioni mondiali


NON C'E' DUBBIO che il Subcomandante Marcos susciti passioni, in un senso o nell'altro: e se Alain Touraine lo ha paragonato a Martin Luther King e a Nelson Mandela, Massimo D'Alema lo ha sarcasticamente definito "uno Zorro". In tutti i casi, una "guerriglia" nata nello stato più povero del Messico ha suscitato in tutto il mondo un'attenzione - una speranza - imparagonabile con quella di altri movimenti. Pure, lo zapatismo sembra a tutti gli effetti un fenomeno assurdo, dopo la "fine del comunismo", la sconfitta delle guerriglie e, soprattutto, dopo la caduta - specie in Occidente - di ogni elaborazione culturale attorno alla possibilità di una società diversa dalla presente. Perciò, forse, giudizi tanto opposti si spiegano, dal lato di Touraine, con la constatazione che dopo tante macerie qualcosa di nuovo viene detto, e fatto, in Chiapas, utile anche qui in Occidente; e, dal lato di D'Alema, con l'incredulità beffarda di chi pensa che l'unico mondo possibile è quello in cui viviamo.

E' stato qualche anno fa, giusto all'indomani della caduta del Muro, che Norberto Bobbio si chiese: se non sarà più il comunismo come l'abbiamo conosciuto nel Novecento, a rappresentare il disperato bisogno di cambiamento di miliardi di esseri umani, chi o cosa lo rappresenterà, visto che quel bisogno non è eliminabile? Più di recente, Pietro Ingrao si è chiesto, sul manifesto: come, dove nascerà una nuova sinistra, non rassegnata né passatista, in grado di decifrare "gli alfabeti della modernità"? Bene, ipotizziamo che una prima risposta a queste domande radicali venga dall'esperienza dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale: certo non nel senso, che gli zapatisti rifiutano con orrore, che lì vi sia un "modello" né tanto meno che se ne possa ricavare una teoria generale della rivoluzione; ma nel senso che la loro specifica lotta contiene in sé suggerimenti e suggestioni utili, anche da noi, ad una nuova politica del cambiamento.

Al loro apparire, gli zapatisti fecero alcune affermazioni bizzarre, cui seguirono comportamenti altrettanto stravaganti, per un "esercito" che - così lo dipingono i pigri media occidentali - si ispirava al guevarismo e alle lotte di liberazione latinoamericane. Dissero prima di tutto che essi non lottano per la toma del poder, la presa del potere. Dissero poi che, in coerenza con i modi della decisione collettiva nelle comunità indigene, essi rispettano il principio del mandar obedeciendo, del comandare obbedendo, e quindi, siccome decidere richiede tempo, essi usano "il tempo e non gli orologi". Aggiunsero che nel rapporto con gli altri essi scelgono di preguntar caminando, di procedere facendo domande. Inoltre, nei loro appelli si rivolgono non al proletariato o alla classe, ma alla "società civile". Infine, per dire questo hanno usato, e usano, un linguaggio colmo di metafore e parabole popolate di anziani e di bambini.

Ciascuna di queste affermazioni, e il modo di farle, racchiude una rottura con affermazioni e modi storicamente depositati della sinistra mondiale. E il fatto che l'esordio dell'Ezln sia avvenuto nel giorno stesso in cui entrava in vigore il Trattato di libero commercio tra Usa e Messico (il Nafta), ovvero una forma regionale di finanziarizzazione transnazionale dell'economia messicana - non dissimile per questo verso da Maastricht - segnalava una prima novità: nell'esperienza dell'Ezln riescono a convivere un ambito locale, strettamente connesso alla vita delle comunità, e una percezione pratica dei processi globali. Il Chiapas, essi dicono, è un "pezzettino del frammentato specchio mondiale della ribellione".

E' qui uno dei significati, il più politico, della "rinuncia alla presa del potere". Si riconosce che gli stati nazionali - compreso quello messicano, pure legato alla forte tradizione nazionale che deriva dalla rivoluzione degli anni dieci - hanno perduto di autonomia, cioè di possibilità di mutare le proprie, nazionali, realtà sociali, economiche e culturali. E' la politica che ha abdicato al suo ruolo, come scrive spesso Barbara Spinelli a proposito di Maastricht. Rinunciare a "conquistare" lo stato nazionale comporta perciò non un arretramento nel "sociale", nel pre-politico, ma l'ambizione di creare un fronte di lotta mondiale, che, saltando l'indebolito livello intermedio, sappia scontrarsi con le istituzioni globali che già oggi governano l'economia, la finanza e la politica militare. E' un paragone improprio, ma serve per capirsi: si tratta di stabilire i rapporti forza utili alla creazione di uno "stato sociale globale", così come i movimenti operai nazionali stabilirono, in decenni di lotte, i rapporti di forza con le rispettive borghesie.

Ma, più in profondo, la rinuncia alla presa del potere smonta uno dei cardini del comunismo novecentesco: quello per cui, scrisse Lenin, "la sola differenza tra noi e gli anarchici" consiste nel fatto che i comunisti vogliono conquistare lo stato, "spezzarlo" e usarlo come leva per creare la "società comunista"; mentre gli anarchici vorrebbero dissolverlo subito, lo stato. E', questa, una contesa antica come la sinistra, e sarebbe fatuo stabilire chi avesse ragione allora o in seguito. Di fatto, gli zapatisti si propongono un'altra concezione del potere e della politica, in cui la costruzione del mutamento si fa in opposizione e altrove rispetto a quella rete di relazioni sociali capitaliste che è lo stato. Il fallimento di tutte le esperienze rivoluzionarie di conquista dello stato dovrebbe suggerire che in quello stesso scopo è contenuto l'obbligo a mutuare metodi o relazioni umane che nello stato risiedono: che si tratti di conquistarlo per via elettorale o attraverso la via militare. Sia nei loro appelli alla "società civile", che nel visibile ruolo di donne (tradizionalmente subordinate e che affermarono la loro autonoma soggettività nel momento stesso in cui l'Ezln nacque), di anziani e bambini, si vede bene come gli zapatisti non partecipino di un'idea maschile, sacrificale e alienata della politica, mutuata appunto dall'avversario.

Ma non si tratta solo di questo: dire "società civile" indica un problema di fondo delle società occidentali, allude alla frantumazione di classi e ceti e minoranze e comunità, oppressi e alienati nel panorama post-fordista e dal dilagare dell'esclusione. Un'alleanza tra tutti questi diversi ripropone, in un'epoca e in un modo differenti, il concetto gramsciano di "blocco sociale", possibile solo se si reinventano le forme organizzative, oltre il partito: l'"avanguardia", che era tale perché possedeva la teoria socialista scientifica e aveva il compito di suscitare la "coscienza di classe".

Oggi ognuno e ogni gruppo sociale, in Occidente come nel Sud, a modo suo è oppresso o sfruttato: o, in altre parole, l'alienazione percorre strade imprevedibili, al di là della fabbrica fordista popolata di tute blu. Per questo il metodo utile è il preguntar caminando, il procedere facendo domande: perché ogni gruppo sociale, e ogni individuo, ha una sua specifica ribellione contro una sua specifica oppressione locale, generazionale, di sesso, nel lavoro, ambientale. Sebbene ogni genere di oppressione possa essere compresa in una sintesi estrema: il dominio mondiale del neo-liberismo e la lotta mondiale contro di esso.

Tutto questo richiede una pratica della democrazia che, in base al mandar obedeciendo, a un tempo vive nell'esperienza diretta della comunità e ha per orizzonte il mondo. E di qui viene il senso attuale della parola d'ordine dello zapatismo storico, tierra y libertad, che oggi non significa - non in Europa - il riprendere possesso collettivamente delle terre predate dai terratenientes, ma la constatazione che - nel capitalismo a produzione diffusa e pervasivo di ogni ambito umano e naturale - così come nel Novecento la classe si organizzava nella fabbrica, oggi la società civile si organizza nel territorio (la tierra), per crearvi una democrazia radicale (la libertad).

Sarebbe bene prendere sul serio l'esperienza zapatista. Non solo da parte di chi sogghigna sullo "Zorro" del Chiapas, ma anche da parte di chi con passione ha cercato dal '94 di dare il suo aiuto a un popolo minacciato di genocidio. Quel che l'Ezln e il suo portavoce Subcomandante Marcos propongono, a noi sinistra europea, è molto più impegnativo: è l'invito a trovare qui, in questo continente vessato dal dominio della finanza, dalla disoccupazione, insomma dalla forma europea del neo-liberismo, parole nostre per dire Ya basta!.

(Tratto dal Manifesto del 5 maggio 1997)


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