il manifesto

2 gennaio 1998


CHIAPAS

A Polhó, tra gli ottomila rifugiati

HERMANN BELLINGHAUSEN * - POLHO' (CHIAPAS)

A CCERCHIATI dall'esercito messicano e dalle forze di polizia, praticamente prigionieri, ottomila tzotziles si concentrano in questo grande accampamento improvvisato di rifugiati, in cui due neonati già sono morti di polmonite.
Fa una grande impressione, camminare per Polhó in questi giorni.
A fianco delle case poverissime dell'abitato ora fioriscono nelle zone vuote da case e nelle scarpate le rudimentali coperture di plastica che indicano che qualcosa, qui, sta succedendo.
Qualcosa di grave.

Polhó è allineata in basso al lato della strada. la via d'asfalto che domina la valle di Polhó è occupata da un distaccamento della Trentunesima Zona Militare: "Il ministero della difesa ci ha ordinato di restare qui per un tempo indefinito e fino a nuovo ordine", è tutto quel che dice il capitano che comanda le truppe federali.

Nel villaggio si trovano 6.013 "basi d'appoggio" dell'Ezln (zapatisti civili, ndr.) e 1.700 Abejas (le "Api", l'organizzazione contadina alla quale appartenevano molti dei 45 uccisi nella strage del 22 dicembre, ndr.), spiega Domingo Pérez Paciencia ai poeti Oscar Oliva e Juan Banuelos, membri della Conai (la Commissione di intermediazione emanazione della diocesi di San Cristóbal, ndr.), all'ombra di un piccolo magazzino, e intanto offre loro mandarini.
Mandarini freschi, che è tutto quel che c'è da dar da mangiare a tutte quelle persone, e poco d'altro.

"Via l'esercito"

Facendo onore al suo nome, Paciencia, con sorridente serenità il presidente del Consiglio autonomo di San Pedro Chenaló riferisce che questa mattina hanno fatto pervenire alle forze di occupazione che li accerchiavano un messaggio, per iscritto e con il rimbro del municipio. "Volevano entrare, ma non glielo abbiamo permesso - dice Pérez Paciencia - Gli abbiamo detto che non abbiamo bisogno della Sicurezza Pubblica, che qui nessuno li ha chiamati".

Il battaglione dell'esercito federale dice di esser venuto con aiuti per le comunità; però l'aiuto che si vedeva parcheggiato sulla strada consisteva nelle cose seguenti: un camion verde oliva da cinque tonnellate e una cinquantina di soldati equipaggiati da campagna, fortemente e vistosamente armati; altri tre camion azzurri di ugual peso e un centinaio di poliziotti statali e federali; inoltre, un numero indeterminato di agenti vestiti in borghese, ma tutti in nero, armati per tutti i casi con pistole e coltelli da caccia, apparecchio radio e alcune altre dotazioni da boy scout.

Come dice Sextino, uno dei rifugiati: "Non fuggiamo per fuggire, ma per resistere".
Il clima, a Polhó, è combattivo. Nella spianata della scuola si organizzano assemblee.
Arriva dalla strada un gruppo di nordamericani che portano coperte e entrano nel villaggio sfilando a fianco dei soldati, e gridando saluti alla resistenza di Polhó: vengono ricevuti festosamente, come sono stati ricevuti gli aiuti civili da San Cristóbal de Las Casas e i pacchi di vestiti, giocattoli e alimenti che stanno affluendo, con il contagocce, da tutto il Messico.

Una festa di fango

L'ebollizione di Polhó, e prima di tutto la determinazione dei suoi abitanti, arrivano infine a ottenere il ritiro dell'accerchiamento militare, al cader della notte.
C'è tanta gente, riunita in questa piccola Babilonia di emergenza, che si vedono ovunque gruppi di addetti alle cucine, alle lavanderie, si sentono brandelli di canzoni rivoluzionarie, e covate di bambine giocare un gioco allucinante tra le braccia degli adulti, in una festa di fango.

Ma questo non è tutto, in questa imitazione di Brueghel, in questo paesaggio febbrile e dolente.

Ana Maria Hérnandez Pérez aveva compiuto 48 giorni di questo mondo, fino alle quattro di mattina del 29 dicembre.
La sua famiglia, due volte in fuga, si era rifugiata a Cacacteal dopo la strage di Acteal, e il 21 si era incamminata verso Polhó, alle sette di sera.
Attraverso la montagna, Ana Maria era arrivata al traguardo verso le tre di mattina.
La polmonite che l'ha uccisa ha impiegato solo un'ora per compiere il suo lavoro.

Pablo Arias Pérez era invece già figlio dell'esilio
. Era nato da 22 giorni a X'Cumumal, dove i suoi genitori di erano rifugiati per sfuggire ai paramilitari di Chimix.
Avevano camminato due giorni, soli, senza abiti né cibo, fino a Polhó.
Alle sei del pomeriggio dello stesso giorno la polmonite ha finito Pablo.

E' la dottoressa Carmen Fuentes, della Unam (l'università principale di Città del Messic , ndr.) a informare di entrambi i casi; lei, lavora in un modesto ambulatorio installato qui.
Per la valle di Polhó vanno e vengono bambini con la pelle infettata in tutte le maniere, con gastroenteriti e affezioni respiratorie.
La denutrizione è peggiore del freddo, che di notte ammucchia famiglie e animali nelle case, nelle aule e in ogni angolo.
Si vedono anche ragazzi indigeni scavare latrine, improvvisare tubazioni per l'acqua, che è tutto meno che potabile.
Con la poca lamiera che c'è, decine di uomini fabbricano coperture e baracche precarie, a poche ore dall'anno nuovo.

Villaggio fantasma

Fidelia cammina timidamente a qualche metro dal camion dei soldati.
Il suo huipil (veste indigena, ndr.) colorato brilla come i suoi occhi seri.
Carezzando la canna della sua mitragliatrice, dalla sommità del veicolo militare, un soldato dice in modo udibile: "Questa qui vuole un figlio da un soldato".
Silenziosamente, i suoi commilitoni si congratulano della battuta, che tra la truppa è popolare.
Mi è capitato di sentirla altre due volte.
Una, diretta alle nordamericane che sono arrivate a Polhó; un'altra, a un gruppo di donne a Città del Messico.
Con voce di soprano, un sergente intona in falsetto: "Voglio un figlio da un soldato".

E' parte di un atteggiamento scoperto e provocante di soldati e poliziotti, che fotografano chiunque passi e in tono di burla emettono suoni come galline.
Quel che in un paese civile si chiamerebbe molestia sessuale, qui serve a manterene alto il morale della truppa.

A due chilometri scarsi da Polhó, il villaggio fantasmo di Avteal mette in scena se stesso come la nuova Guadalupe Tepeyac (villaggio della Selva abbandonato dalla popolazione dopo l'offensiva militare del febbraio '96, ndr.).
La caserma installata nella scuola sta lì, con la sola compagnia dei 45 caduti del 22 dicembre, soli abitanti, sotto terra, del luogo.

Equipaggiati con armi da guerriglia, reparti speciali pattugliano per le scarpate della vallata cui fa capo Acteal, luogo che serve da base di operazioni per questa nuova posizione dell'esercito, che, nonostante la Legge per la Pace e la Riconciliazione del governo federale, non fa altro che prendere nuove posizioni.
Lo stesso distaccamento militare che manteneva sotto assedio Polhó si è tenuto nelle vicinanze, dopo assere stato ricacciato indietro, dando a intendere che non pensa affatto di andarsene.

* La Jornada


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