il manifesto

2 gennaio 1998


PRIMO GENNAIO

PIERLUIGI SULLO

FU CON TOTALE sorpresa, che il primo gennaio di quattro anni fa il mondo apprese dell'esistenza di una nuova guerriglia nel sud del Messico.
Quando indigeni vestiti di nero e marrone, armati di vecchi fucili e - alcuni di loro - con il viso coperto da passamontagna comparvero nelle strade di San Cristóbal, gli stessi abitanti dell'antica città coloniale restarono senza parole.
E' quel che racconta in pagina 11 Gianni Proiettis, che era lì e che di quella armata artigianale intervistò un subcomandante.

Il primo gennaio '94 era stato atteso, in Messico, quanto da noi lo è il primo giorno del '99: quel giorno noi entreremo in Europa; il grande e drammatico paese centroamericano stava invece entrando in America.
La porta d'ingresso si chiamava Trattato di libero commercio, la lingua comune sarebbe stata il dollaro, la nuova cultura pubblica il liberismo, il potere legittimo la grande e impersonale finanza.
E se il super-mais nordamericano avrebbe distrutto la piccola agricoltura, sovrappopolando i barrios miserabili della più grande città del pianeta, in compenso una integrazione si sarebbe ottenuta cedendo al grande vicino pezzi di sovranità su spazio aereo, approdi marittimi e indagini di polizia, con il pretesto del narcotraffico.

Per un paese che è davvero una nazione - per quanto doppia e in una guerra mortale con il proprio passato, sia lo sterminio coloniale degli indigeni, sia la Rivoluzione che inaugurò il Novecento - non era evidentemente sopportabile, una tale miscela di umiliazione nazionale e di peggioramente del già peggiore, ovvero la povertà letale degli indigeni e delle decine di milioni che indigeni hanno cessato di essere nello sradicamento, alla frontiera nord come nelle discariche della metropoli.

Lì, proprio in quel punto, dove si vede il tradimento della promessa del progresso, è apparso l'Esercito zapatista.
Qualche tempo dopo la Fine della Storia.

Non si è fatto che del sarcasmo, dentro e fuori la sinistra, sull'entusiasmo che la novità zapatista avrebbe suscitato ovunque, grazie poi al fatto che quel segnale combinò in modo sorprendentemente semplice i simboli e i linguaggi, e lo stile di quel grande scrittore (lo dice Octavio Paz) che è il subcomandante Marcos.
Quante ne abbiamo sentite.
Si trattasse, più o meno onestamente, di fastidio per ciò che sa di nostalgia o di disprezzo per ciò che non-ha-i-piedi-per-terra, adesso i fatti si sono di nuovo messi di mezzo.

Guardate la fotografia di pagina 10.
Un uomo seppellisce il suo bambino di 22 giorni, morto di freddo scappando dalle bande che hanno ucciso 45 altri padri e madri e bambini.
Qualcuno sta pagando un prezzo per averci fatto sentire una voce, che diceva: rivogliamo la dignità.
Un commentatore messicano ha scritto, in questi giorni, che nessuno può negare che quel che gli zapatisti chiedono è perfettamente naturale: la salute e la propria cultura, l'istruzione e la democrazia, il rispetto e la giustizia. ose elementari.
E' per questo che il doverle rivendicare - con armi che non si vorrebbero impugnare - produce un tale effetto, in società che ancora fingono quei valori fondanti mentre l'economia ne sgretola la sostanza sociale.
Perciò sentiamo così vicino quel giovane padre con un fagotto bianco tra le mani.


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