COME IN MESSICO SI COMMEMORA IL GIORNO DEI MORTI

Cara compagna,

oggi 2 novembre, noi messicani pazzerelli per chissà quale ragione festeggiamo la morte. Da tempi immemorabili, i nostri antenati hanno capito che la vita non poteva spiegarsi senza la morte, però la morte per i nostri nonni non era una cosa terribile, come dopo sono venuti ad insegnarci i conquistatori, ma invece l'inizio di un nuovo viaggio che ci avrebbe ricongiunti come guerrieri al sole.

Per gli antichi messicani la vita era solo un tempo sulla terra, siamo usciti da lei, per poter conoscere la meraviglia dei suoi frutti, per godere dei suoi colori, per ascoltare il canto dello zenzontle, l'uccello dalle quattrocento voci, per godere delle quattro direzioni dell'universo, e dei suoi elementi: l'acqua, il vento, il fuoco e la terra, come dicevano i greci. Però con una simbologia distinta, dato che ognuno di questi elementi insegnava all'uomo ad essere differente: per esempio l'acqua insegnava a camminare uniti insieme con il proprio popolo come il fiume, di fronte al pericolo di sfumare come vapore, o ad essere solido come il gelo di fronte al nemico e ad avere una coscienza trasparente e limpida come una goccia d'acqua.

La morte non era una cosa brutta, era il ritorno all'origine, era lo specchio col quale ci confrontavamo per evitare la vanità ed il desiderio di potere. E dato che la vita era corta e dovevamo separarci da lei, come tutti. Però morire non era facile, colui che non moriva lottando per la terra, colui che non l'aveva amata col suo lavoro, e non aveva condiviso i suoi frutti, non sarebbe morto, non avrebbe avuto diritto al riposo. I guerrieri, autentici figli della terra, non solo erano destri nelle armi, ma erano pure autentici filosofi della vita; loro al morire sarebbero riusciti ad attraversare il fiume della morte guidati dal xolotl-escuintle (il cane amico) per poter arrivare al Mictlan (la terra dove vivono i morti), l'inframondo. Il luogo dove Quetzalcoatl, ruba il fuoco e crea l'uomo dal nuovo sole e strappa la luce dalle ombre. La stessa cosa che fanno oggi gli zapatisti.

Gli zapatisti, indios chiapanechi, vivono nell'inframondo del Messico, o nella cantina del paese, come diceva Marcos; loro dalla loro miseria (l'oscurità) hanno saputo strappare la speranza (la luce), per darla a noi tutti. Hanno parlato con la voce dei loro morti, quelli della morte inutile, per restituirci il volto della vita: la vita come lotta, come cambiamento, come cammino, come domani, come sole, come luna, come tutto. La morte come grido necessario per essere ascoltati, per essere visti, per essere degni, non più la morte inutile a cui ci portano i padroni del denaro, ma invece la morte guerriera, che ci restituisce la vita.

In questi giorni, l'1 ed il 2 novembre, i messicani si mangiano i teschi fatti di zucchero, di pane, di cioccolata; li disegnano e li dipingono con colori vivi, offrono loro i frutti della stagione, danno loro da bere pulque, mezcal, tequila e birra; offrono loro piattini squisiti con mole, nopalitos, e pozole; i dolci di zucca, il camote ed i tejocotes sciroppati sono invece per i bambini morti. E per finire si prepara loro una festa multicolore e piena di aromi, di zimpasuchitl (il fiore giallo dei morti), di resina e di mirra. La gente nel cimitero ed in casa condivide con i suoi morti questa festa della vita. Loro vengono nella notte per mangiarsi tutto e stare un momento con noi.

Insomma compagna. Messico è pazzo. Nonostante tutte le sue disgrazie dà segnali di allegria, che in giorni come questi traboccano in grandi feste. Noi stiamo quasi per iniziare la nostra, stanno già arrivando i nostri invitati, i vivi ed i morti. Siano i benvenuti in questa casa, che è anche la tua.

(lettera dal Collettivo La Guillotina del 2 novembre 1997)

(tradotta dal Comitato Chiapas di Torino)

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